Da risorse umane a investitori: dove sta andando il lavoro

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Come ci insegna Cass R. Sunstein, uno dei massimi esperti di economia comportamentale, è impossibile prevedere il momento in cui il serpeggiare di un malcontento diffuso si trasforma improvvisamente in un’onda di cambiamento sociale. I fattori da cui dipende sono tanti e, soprattutto, la combinazione perfetta degli addendi che fa scattare il meccanismo rientra nella sfera della serendipity. Non possiamo sapere se e quando avverà, ma la storia ci dice come: i grandi mutamenti avvengono in un breve periodo di tempo.

Osservando la realtà contemporanea, scombussolata dalla pandemia, si percepiscono in nuce numerosi indizi di turbolenza. Uno su tutti, quello proveniente dal mondo del lavoro. In verità, in subbuglio da tempo, seppur in forma sottesa e frammentaria. L’ondata di dimissioni volontarie, che ha investito gli Usa nel 2021 con numeri così importanti – 4,53 milioni a novembre – da meritarsi l’appellativo di Great resignation, seguito in misura minore in Europa, pone un interrogativo: ci troviamo di fronte a un riorientamento del mondo del lavoro?

Francesco Armillei, ricercatore alla London School of Economics e socio del think tank Tortuga, che per primo ha rilevato il fenomeno in Italia, avverte che dall’analisi del campione rappresentativo delle comunicazioni obbligatorie delle dimissioni che il ministero del Lavoro ha aggiornato al terzo trimestre 2021, non emerge una risposta cosi chiara. I dati – scrive su la.voce.info – ridimensionano l’idea di dimissioni trainate da profili qualificati che decidono di ‘cambiare vita’, così come l’idea che il fenomeno interessi prevalentemente i giovani o chi ha un ‘posto fisso’. Occorre invece pensare a spiegazioni più sfaccettate”.

Una di queste ci viene offerta da una recente indagine del Centro Ricerche Aidp, guidato dal professor Umberto Frigelli. Su un campione di circa 600 aziende, a lasciare volontariamente il lavoro è stata soprattutto la fascia dei 26-35enni, ovvero il 70% del campione, seguita dalla fascia 36-45 anni, collocati nelle mansioni impiegatizie (82%) e residenti nelle regioni del Nord Italia (79%). Le ragioni principali sono addebitabili alla ripresa del mercato del lavoro (48%), alla ricerca di condizioni economiche più favorevoli in altra azienda (47%), all’aspirazione a un maggior equilibrio tra vita privata e lavorativa (41%) e alla ricerca di migliori opportunità di carriera (38%).

Ma a far riflettere sono quel 25% che indica la ricerca di un nuovo senso di vita e quel 20% che imputa a un clima di lavoro negativo la ragione delle dimissioni. Il fatto che circa l’88% delle aziende coinvolte ha dichiarato di non avere in atto un piano di incentivo all’esodo, conferma che il fenomeno sia indipendente dalle strategie aziendali e che sia piuttosto – come pensa il 57% dei direttori del personale – la dimostrazione di quanto sta cambiando la percezione che le persone hanno del senso del lavoro e – il 30% – di quanto stia mutando il mercato.

Tra le spiegazioni possibili, la sociologia Ivana Pais, durante una recente lectio in occasione del Graduation Day dell’ultima edizione del Master in Competenze Filosofiche per le Decisioni Economiche dell’Università Cattolica, ha citato quella che in gergo viene chiamata YOLO economy, ovvero “You only live once”. Di fronte alla paura della morte improvvisamente materializzatesi con la pandemia, la dimensione esistenziale è tornata a farsi sentire, spingendo le persone a una profonda riflessione. Nel lavoro, questo risveglio si traduce in aspettative più alte rispetto al passato e in una richiesta di senso, troppo spesso disattesa dal sistema socio-economico contemporaneo.

A guardar bene, segnali di un crescente disagio soprattutto delle nuove generazioni sono emersi dalla crisi finanziaria deflagrata nel 2008. Roshan Paul e Ilaina Rabbat sono stati tra i primi a intercettarlo e a rispondere fondando nel 2011, a Nairobi, Amani Institute, un nuovo modello di higher education finalizzato a formare social innovation managar e cambiare il corso della storia. Da poche settimane hanno pubblicato un libro che presenta un punto di vista radicalmente diverso rispetto alla visione dominante delle business school più blasonate. Ne “The New Reason to Work. How to build a career that will change the world” spiegano come costruirsi un percorso di carriera a forte impatto sociale, che possa allineare la missione di vita con le opportunità di lavoro.

Che siamo giunti a una svolta, lo registrano a dire il vero numerosi studi, tra cui un corposo Report di Bain & Company, basato su una survey condotta da Dynata su 20mila lavoratori e interviste approfondite con oltre 100 persone di 10 paesi del mondo tra cui il nostro: Stati Uniti, Germania, Francia, Italia, Giappone, Cina, India Brasile, Indonesia e Nigeria. Dall’interruzione dello status quo dovuta alla pandemia all’utilizzo della disruption come opportunità per ridefinire il modo di vivere il lavoro, il passo è stato breve. In un ‘attimo’, potremmo dire, la gig economy ha preso il sopravvento rispetto al sistema mainstream, cambiando radicalmente la relazione tra lavoratori e aziende. Improvvisamente – si legge nel report – le società si sono rese conto di quanto il talento stia diventando la loro risorsa più preziosa, spingendole a ripensare i loro modelli organizzativi. Tanto basta per generare uno spostamento di potere, impercettibile ma irreversibile, dal capitale verso il lavoro.

Secondo questa analisi, nei prossimi dieci anni dobbiamo aspettarci una riformulazione del mercato del lavoro, in funzione di cinque evidenze: crescono le aspettative rispetto al lavoro; la definizione di cosa sia un ‘good job’ varierà molto in base a sei archetipi di lavoratori, con set di priorità diverse; l’automazione sta eliminando i lavori di routine e valorizzando le competenze distintive quali il problem solving, il critical thinking, le capacità relazionali, ecc.; il remote e gig working sfidano la coesione delle aziende; i giovani, soprattutto nei paesi avanzati, è sotto una pressione psicologica sempre più insostenibile.

In conclusione, le aziende vincenti saranno quelle capaci di trasformarsi da talent takers a talent makers. Ovvero, in grado di far crescere talenti, valorizzando tutto il potenziale a disposizione nelle organizzazioni, sovvertendo i classici percorsi di carriera verticale e cercando di sviluppare quel ‘growth mindset’ coniato dalla psicologa Carol Dweck che rende ogni abilità suscettibile di continuo miglioramento. Il reskilling e la formazione continua del capitale umano sarà un asset strategico imprescindibile, ma con una significativa differenza rispetto al passato: i lavoratori dell’economia della conoscenza saranno sempre più consapevoli di essere degli investitori, non delle risorse. E questa è buona notizia.

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