Il burnout colpisce molte più donne che uomini e questo – ennesimo – gap di genere è raddoppiato nell’ultimo anno. Perché e sopratutto cosa possiamo fare? Quasi metà delle donne americane (42%) dichiara di essere stressata sul lavoro, un dato in aumento rispetto al 2020 e decisamente superiore rispetto ai colleghi. Eppure, come racconta l’approfondimento di McKinsey “.The state of burnout for women in the workplace”, la produttività aziendale è ai massimi storici e quindi la domanda è lecita: a quale prezzo? Anche perché le donne tendono a fare le “office housekeeping”, come le ha ribattezzate il rapporto Women in Workplace 2021: le senior leader hanno il 60% di probabilità in più rispetto ai colleghi di concentrarsi sul supporto emotivo del proprio team, usando quelle doti come resilienza, adattabilità, empatia, condivisione che sono riconosciute come strategiche per i futuri leader.
E in Italia? Lo abbiamo chiesto a Cristina Catania, Senior Partner di McKinsey: “In Italia il quadro normativo di tutela della salute e sicurezza sul lavoro stabilisce che deve essere valutato il rischio da stress correlato al lavoro e promuove il riconoscimento delle differenze di genere. Già nel 2017, un’indagine condotta in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale evidenziava che nel nostro Paese il fenomeno dello stress da lavoro colpisce in prevalenza le donne. All’origine – spiega – vi sono diversi fattori, tra cui gli impegni famigliari e la maggiore esposizione ad azioni discriminatorie e a barriere culturali che rendono la carriera delle donne più difficoltosa e con retribuzioni inferiori rispetto ai colleghi uomini di pari ruolo e competenze“.
Cosa si può fare perché al divario occupazionale e retributivo a scapito delle donne non se ne aggiunga un altro, quello della salute sul lavoro? L’approfondimento suggerisce di pianificare il più possibile il ritorno al new normal e di progettare le nuove modalità di lavoro co un’attenzione particolare alle tematiche di genere. “L’attenzione generale verso la parità di genere continua a crescere – conferma Cristina Catania – e le aziende in Italia stanno rafforzando il proprio impegno in questo ambito, anche se resta ancora molta strada da fare, soprattutto per assicurare opportunità di assunzione e di carriera eque, e consentire a sempre più donne di ricoprire ruoli manageriali. Alcuni esempi di iniziative concrete si possono trovare nel Patto Zero Gender Gap, sottoscritto dalle principali aziende nazionali e internazionali in occasione del Women’s Forum G20 Italy dello scorso ottobre, e che McKinsey ha contribuito a elaborare. Per citarne alcune: stabilire target per l’assunzione e la promozione delle donne, avviare programmi di sponsorship ed empowerment, garantire la flessibilità oraria, introdurre KPI dedicati nei sistemi di valutazione“.
Quello che l’approfondimento chiama il the broken rung of advancement (il “gradino rotto dell’avanzamento”) è dovuto ai doppi impegni delle donne in ufficio e a casa, ma anche a programmi di avanzamento di carriera nei quali spesso le donne non si riconoscono e possono essere migliorati. “Perché vi sia un cambiamento concreto – spiega ancora la senior partner di McKinsey – le organizzazioni dovrebbero regolarmente misurare con indicatori quantitativi l’efficacia delle proprie iniziative volte a ridurre il divario di genere nel mondo del lavoro, monitorandole nel tempo e assicurandosi che si registri un progressivo miglioramento. Indicatori quantitativi che devono necessariamente essere accompagnati da un cambio di mentalità, anche attraverso specifici programmi di formazione e di iniziative a livello aziendale, al fine di eliminare tutti quegli ‘unconscious bias’ che danneggiano le donne“.
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.