In Italia i dirigenti sono pochi: 1,4 per ogni 100 dipendenti nel settore privato, il valore più basso in Europa dopo quello del Belgio (Figura 1). Tra questi pochi, le donne sono solo una su quattro (Figura 2), e guadagnano poco più della metà dei loro colleghi di genere maschile. Il differenziale retributivo annuo tra i dirigenti e le dirigenti che lavorano a tempo pieno è infatti pari al 41%, il valore più alto in Europa (Figura 3)[1].
Secondo la classificazione internazionale delle occupazioni i dirigenti “pianificano, dirigono, coordinano e valutano le attività di imprese, governi e altre organizzazioni, e formulano e riesaminano le loro politiche”. Non sono compiti facili, ma nei percorsi formativi che certificano le conoscenze, le abilità e le competenze coerenti con questo tipo di attività professionale le donne sembrano essere ben rappresentate (Almalaurea 2021). Ad esempio, le donne sono il 51% dei laureati magistrali del gruppo economico, sono anche il 51% degli occupati a cinque anni dal conseguimento del titolo, ma fin dal primo impiego guadagnano il 13% in meno dei loro colleghi[2].
Cosa c’è dunque nel ruolo dirigenziale che lo fa apparire inadatto al genere femminile, soprattutto per le posizioni apicali? E perché le dirigenti sono retribuite meno dei dirigenti, anche quando lavorano come loro a tempo pieno?
Secondo quanto emerso da una ricerca condotta su un campione di 580 donne manager da Badenock + Clark (in collaborazione con JobPricing) “l’ostacolo principale che le donne incontrano nella carriera professionale è la discriminazione di genere” (indicato dal 38% delle intervistate), cioè “il fatto che a parità di competenze sono privilegiati gli uomini, perché sono loro a ricoprire le posizioni di vertice nelle organizzazioni”. Al secondo posto (36%) vi è la “presenza di carichi di famiglia e la mancanza di strumenti di effettiva conciliazione”[3], e al terzo posto (21%) c’è il “condizionamento degli stereotipi che impongono alle donne di avere caratteristiche maschili per affermarsi professionalmente”.
Ma prima ancora che questi ostacoli possano diventare operativi, c’è da considerare il fatto che le donne non si candidano per le posizioni dirigenziali. Le donne si propongono solo se le loro caratteristiche produttive soddisfano al 100% i criteri indicati, cioè se possiedono tutti i requisiti richiesti dalla A alla Z, mentre gli uomini si candidano anche quando ne posseggono solo una parte. Questo problema è tanto più evidente quanto più le posizioni bandite richiedono qualifiche tipiche del genere maschile, come ad esempio le capacità gestionali, analitiche, informatiche e tecnologiche (Coffman, Collis and Kulkarni 2021).
Questa riluttanza femminile a presentare la propria candidatura può essere spiegata, almeno in parte, dalle differenze di genere nelle preferenze, come ad esempio una maggiore avversione al rischio, una minor fiducia in sé stesse, o un minor apprezzamento per i ruoli dirigenziali, rispetto alla componente maschile. Ma una recente ricerca condotta nel Regno Unito ha rivelato un’ulteriore e non trascurabile causa di questo fenomeno: le donne sono tanto meno propense a candidarsi quanto più frustranti sono state le loro precedenti esperienze in circostanze analoghe. Questo risultato mette in luce il fatto che anche per spiegare una situazione in cui gli stereotipi rilevanti sono quelli delle persone su di sé, bisogna estendere l’analisi al condizionamento degli stereotipi altrui, cioè al fatto che le procedure di selezione delle imprese possano essere effettivamente ingiuste, o comunque essere percepite come tali dalle potenziali candidate.
In tale contesto, anche una soluzione semplice e intuitiva come quella di incoraggiare le donne a promuovere se stesse rischia di rivelarsi controproducente. E’ dimostrato infatti che quando le donne ostentano consapevolezza di sé, e si comportano in modo assertivo, le loro probabilità di ottenere la posizione vacante si riducono invece di aumentare, perché l’assertività non è coerente con la visione stereotipata del genere femminile e quando si manifesta genera un “contraccolpo” che penalizza le candidate più risolute (backlash theory).
In conclusione, diventare dirigente per una donna sembra essere davvero complicato. Dar prova di avere maggiori competenze rispetto agli altri candidati non è sufficiente: se si vuole avere qualche speranza di successo si deve anche dimostrare di non ricercare lo status di leader per ambizione personale ma di accettare l’incarico solo nell’interesse di tutto il gruppo (Ridgeway 1982).
Come si può facilmente intuire, l’effetto negativo sulle candidature che deriva da precedenti insuccessi vale anche per la componente maschile (Brands e Fernandez-Mateo 2017), ma per le donne è molto più marcato, a prescindere dal loro livello di qualificazione. Quando chiesero a Donna Strickland, premio Nobel per la fisica 2018, perché fosse solo professoressa associata e non professoressa ordinaria, pur essendo lei così evidentemente brava, la scienziata rispose: “non ho mai fatto domanda”.
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[1] – La SES è condotta sulle imprese con più di 10 dipendenti. Il differenziale di genere tra le retribuzioni orarie medie nel gruppo dei dirigenti a tempo pieno è 26,8%.
[2] – Retribuzione mensile netta (medie, in euro) maschile: 1.746; femminile: 1.514.
[3] Più del 50% delle intervistate “ha dei figli minori di sei anni o comunque in età scolare e il 28% delle manager ha l’incombenza di dover accudire terzi (genitori, altri parenti o amici)”.