Il 7 dicembre 2021 si è festeggiata la nascita del protocollo italiano sul lavoro in modalità agile nel settore privato, firmato dal Governo e dalle parti sociali. C’è da celebrare la scelta di un nome: lo abbiamo chiamato “agile”. Né smart, né tele, né ibrido: sarà agile, si muoverà con noi e cambierà forma, come richiede l’attuale fase storica in cui, come afferma il protocollo “sono in corso grandi trasformazioni che hanno un significativo impatto sull’organizzazione del lavoro”. Tanto che, puntualizza il documento, la trasformazione era già in atto e il covid l’ha solo accelerata (ma di parecchio). Per questo il protocollo è importante, pur nella sua necessaria vaghezza – rimandando molte decisioni ad accordi successivi tra le parti – e, soprattutto nella parte introduttiva, veste con coraggio il proprio ruolo di direzione culturale del cambiamento, dandosi come premessa:
“la necessità di procedere a un più ampio rinnovamento di prospettiva, ridefinendo il lavoro in un quadro di fiducia, autonomia e responsabilità condivise”.
Fiducia, autonomia, responsabilità sono quindi la cornice per ridefinire che cosa sia e come “si faccia” il lavoro oggi. Fiducia dei lavoratori verso le aziende e delle aziende verso i lavoratori, autonomia nel portare avanti il lavoro secondo gli obiettivi, assunzione di responsabilità come precondizione all’aumento di libertà. Verrebbe quasi voglia di trasformarlo in un giuramento da fare in fase di assunzione: un rappresentante dell’azienda che assume e il lavoratore che viene assunto si guardano negli occhi, alzano la mano destra e dicono:
“Mi fiderò e sarò degno di fiducia, sarò autonomo nel raggiungere gli obiettivi, mi assumo la responsabilità di questo lavoro” .
Nuove basi per un più ampio rinnovamento di prospettiva che il contesto evolutivo richiede, e che segue di appena qualche riga l’altra premessa forte del protocollo, ovvero una crescente attenzione alle esigenze di conciliazione dei tempi di vita e lavoro, di impiego di risorse rispettose della sostenibilità ambientale e del benessere collettivo. Il lavoro agile è dunque considerato come un tassello importante sia per ripensare il lavoro (la sua organizzazione, ma non solo) che per migliorare l’impatto che la funzione produttiva ha sul benessere dei lavoratori e dell’ambiente.
Il documento è lungo appena 8 pagine più le firme, quindi sceglie con cura quali cornici porre. Oltre a parlare di sicurezza, gestione dei dati e strumentazione, colloca il lavoro agile in:
1) una definizione rivoluzionaria di tempo: “la giornata lavorativa svolta in modalità agile si caratterizza per l’assenza di un preciso orario di lavoro e per l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati”;
2) una libertà di luogo: “il lavoratore è libero di individuare il luogo ove svolgere la prestazione in modalità agile purché lo stesso abbia caratteristiche tali da consentire la regolare esecuzione della prestazione, in condizioni di sicurezza e riservatezza”;
3) un obiettivo di parità tra i generi: “nella logica di favorire l’effettiva condivisione delle responsabilità genitoriali e accrescere in termini più generali la conciliazione tra i tempi di vita e i tempi di lavoro”.
Ambizioso, come è necessario che sia un protocollo che sancisce un cambiamento epocale del modo in cui le persone lavorano: iniziare a disciplinare non più il controllo, ma la libertà di tempi e luoghi, gettando un ponte verso un futuro del lavoro che ci vede più autonomi, responsabili e degni di fiducia.
Ecco, forse, di fronte a una visione così coraggiosa, il documento manca un po’ di realismo quando, nel parlare della formazione che garantirà pari opportunità nell’utilizzo degli strumenti di lavoro e nell’arricchimento del proprio bagaglio professionale, dedica appena una riga e un aggettivo alla capacitazione necessaria perché questo avvenga nei comportamenti e nelle attitudini mentali, oltre che nella tecnica.
Il protocollo menziona infatti il fine di diffondere una cultura aziendale orientata alla responsabilizzazione e partecipazione dei lavoratori, che però riduce subito alla formazione di competenze “organizzative”, strette tra quelle tecniche e quelle digitali, alla fin fine connesse a “un efficace e sicuro utilizzo degli strumenti di lavoro forniti in dotazione”.
Si continua insomma a puntare il massimo sforzo formativo sulle capacità tecniche e forse si sottovaluta il bisogno di lavorare sulle nostre teste, su come pensiamo e ci programmiamo, su quanto costoso sia riprogrammarci e quanta intenzione richieda cambiare schemi che sono in funzione da decenni. Solo un accenno si concede ai manager, da formare “al fine di acquisire migliori competenze per la gestione dei gruppi di lavoro in modalità agile”; ma sempre poco, troppo poco rispetto alla mole di formazione che servirebbe perché possiamo riorganizzarci e familiarizzare con modalità di produzione che escono dall’ufficio, smettono di timbrare il cartellino, esistono anche nell’invisibilità, sono abbastanza intelligenti da auto organizzarsi in modo collettivo, sanno mescolare presenza e assenza, adottano e comprendono linguaggi nuovi, scrivono nuove regole “mentre” le scoprono.
Il lavoro agile è un tassello, dice giustamente il protocollo. Si tratta, ciononostante, di un documento in cui si sente l’emozione dell’apertura a un mondo nuovo, più ambizioso e volto verso un progresso umano che sia sostenibile e felicitante anche nella sua componente produttiva. Mai come oggi, però, la differenza la faranno i comportamenti umani: i cosiddetti “mindset” che consentiranno di cogliere il meglio dalle opportunità tecnologiche a disposizione. È sulla cultura, su tutto ciò che è soft, in sintesi sul fattore umano, che si gioca davvero questa partita.
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