Professionisti, ecco perché le donne guadagnano meno dei colleghi

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Una psicologa, una dietologa, un’avvocata, una veterinaria possono svolgere la loro attività alle dipendenze di un datore di lavoro o in modo autonomo, come libere professioniste. In Italia la quota delle occupate che lavorano in proprio nell’ambito delle professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione è pari al 22% del totale, e sale fino al 27% se si restringe l’insieme alle sole laureate (Figura 1).

Figura 1 – Laureate occupate come indipendenti nelle professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione, in % del totale delle laureate occupate nello stesso gruppo (dipendenti più indipendenti). UE27 – 2017

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elaborazione su dati Eurostat

A questa marcata differenza fra presenza femminile e maschile nell’occupazione indipendente corrisponde però una differenza di genere nelle retribuzioni altrettanto marcata. I dati OECD rappresentati nella figura 2 mostrano infatti che nel nostro Paese il gender pay gap riferito al reddito medio annuo da lavoro autonomo tocca il 45%.

Figura 2 – Gender pay gap nell’occupazione indipendente – Reddito medio annuo – EU 2017

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Questo ordine di grandezza del differenziale retributivo di genere è confermato anche dai dati dell’Associazione degli Enti Previdenziali Privati (AdEPP), dove la componente femminile rappresenta attualmente il 41% degli iscritti e la differenza nel reddito imponibile dichiarato annualmente da uomini e donne è pari al 45% (la media dei redditi della componente femminile è infatti di circa 24 mila euro contro i 43 mila euro della componente maschile)[1].

Confrontando questi dati con quelli di fonte Istat riferiti all’occupazione dipendente si nota che il gender pay gap nel lavoro subordinato scende a 17,3% (la retribuzione lorda media annua per dipendente è pari a 31 mila euro per le donne contro 38 mila degli uomini).

Una possibile spiegazione della maggior consistenza del gender pay gap nell’ambito del lavoro autonomo rispetto all’occupazione dipendente è legata al fatto che i minimi retributivi fissati dalla contrattazione collettiva per il lavoro subordinato hanno confinato la disparità di trattamento alla sola parte variabile della retribuzione, mentre gli interventi normativi di regolamentazione delle tariffe professionali hanno contribuito ad abbassare la soglia minima dei redditi da lavoro autonomo, ampliando il divario salariale.

Una seconda spiegazione del differenziale retributivo nelle libere professioni è legata al fatto che le donne sono mediamente più giovani degli uomini (l’età media delle libere professioniste è di circa 45 anni, contro i 50 degli uomini), ma la differenza di genere rimane comunque molto marcata, anche disaggregando i dati per classe d’età (Tabella 1).

Tabella 1 – Redditi dei liberi professionisti iscritti alle Casse di previdenza per sesso e classe d’età – media annua 2019.

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Fonte: ns. el. su dati AdEPP 2020

Altre cause di questo divario salariale possono essere individuate nella divisione del lavoro di genere e nella difficoltà di conciliare vita familiare e attività professionale, nelle diverse specializzazioni compresenti nell’ambito di una stessa professione, e nel condizionamento degli stereotipi che influenza inconsapevolmente sia le scelte delle professioniste (stereotipi su di sé) sia le loro prospettive di successo e di reddito (stereotipi altrui). Da un lato infatti le donne possono essere scoraggiate dall’esercitare una libera professione perché non vedono l’attività imprenditoriale come “adatta” a loro, cioè come coerente con le caratteristiche del proprio genere; d’altro canto invece possono essere i fornitori di risorse (finanziatori, clienti, mariti, padri, ecc.) che non ritengono l’attività imprenditoriale “adatta” alle donne, e di conseguenza non incoraggiano la loro autonomia professionale.

Come esempio del condizionamento degli “stereotipi su di sé” possiamo citare una recente affermazione di Carolina Müller-Möhl, imprenditrice svizzera di sicuro successo, sul fatto che le donne sono un po’ troppo autocritiche:

“Presentano ai potenziali investitori le loro brillanti idee, rivelando però fin dal primo incontro i propri dubbi e preoccupazioni riguardo al progetto”

Cosa che invece gli uomini abitualmente non fanno. Che non si tratti di un’opinione personale lo confermano i risultati di una ricerca appena pubblicata dal Global Entrepreneurship Monitor: in 58 dei 59 Paesi che hanno partecipato all’indagine è emerso che le donne hanno minor fiducia degli uomini nelle proprie capacità imprenditoriali[2]. A livello globale, il 43,4% delle donne ha espresso fiducia nelle proprie capacità imprenditoriali contro il 55,6% degli uomini; in Italia le percentuali si abbassano marcatamente scendendo fino al 36,5% per la componente maschile e dimezzandosi rispetto al dato aggregato per la componente femminile (23,2% contro 43,4%).

Come esempio del condizionamento degli “stereotipi altrui” possiamo citare un sondaggio recentemente condotto negli Stati Uniti sugli studi legali. I risultati hanno confermato sia il fatto che le donne guadagnano in media il 44% in meno rispetto agli uomini, sia la diffusa presenza di stereotipi di genere nell’avvocatura.

Curiosamente, il 57% delle avvocate intervistate ha riportato di essere stata spesso scambiata per la segretaria, la custode o l’assistente di studio, mentre i colleghi maschi avevano riscontrato equivoci di questo tipo solo nel 7% dei casi. In verità, se un’avvocata su due è scambiata per qualcun altro, è possibile che le venga il dubbio di non essere nel posto giusto, quale che sia la forza della sua vocazione professionale. La stessa ricerca evidenzia anche un secondo atteggiamento curioso nell’ambito della professione legale: non solo le avvocate vengono scambiate per non-avvocati, ma ci si aspetta anche che siano loro a svolgere quelle attività ordinarie, necessarie alla vita dello studio ma indipendenti dalle competenze professionali, come pianificare le riunioni, prendere appunti, ordinare il pranzo, apparecchiare e sparecchiare per le pause-caffè e confortare una persona in difficoltà.

Il sondaggio, che ha coinvolto 2.827 individui di entrambi i generi, è stato promosso dall’ordine degli avvocati allo scopo di evidenziare l’influenza di stereotipi e pregiudizi nella professione legale, perché come spiega il titolo del rapporto “Non puoi cambiare ciò che non puoi vedere”.

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[1] – I redditi qui considerati coincidono con gli imponibili ai fini previdenziali dichiarati nell’anno di riferimento. In generale, tali imponibili sono molto prossimi all’imponibile fiscale IRPEF.

[2] Unica eccezione l’Angola.

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