Lisa Noja: “Parte della mia disabilità deriva dall’incapacità di costruire un mondo a misura di tutti”

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“C’è una parte della mia disabilità che dipende da una malattia rara e quella parte non è colpa di nessuno, ci ho fatto i conti da tempo, ma c’è un altro pezzo che sarebbe evitabile e deriva solo dalla totale incapacità di costruire un mondo a misura di tutti e tutte.”

A scrivere queste parole è l’on. Lisa Noja, capogruppo di Italia Viva in Commissione Affari Sociali alla Camera. Lo scorso 7 novembre, attraverso un post scritto su Facebook, ha dato una precisa lezione sul significato della frase “il personale è politico”. Ancora più forte dal momento che arriva da una persona particolarmente riservata sui social network e che non è solita farne un uso personale. Questa volta Noja ha deciso di rompere la barriera per portare i riflettori su una situazione che la riguarda sì personalmente, ma riguarda anche una fetta della popolazione a cui ha dato voce con il suo racconto.

L’on Noja è affetta da atrofia muscolare spinale e nel suo post ha raccontato la difficoltà di accedere a un esame di controllo importante come la mammografia. Difficoltà causata dal doversi adeguare alle posizioni richieste da una macchina progettata “senza tenere in minima considerazione milioni di donne che, come me” scrive “non possono stare in piedi, che non riescono a tenere una postura standard, che hanno una muscolatura più debole. Insomma che sono diverse dal modello di femmina che i designer hanno in testa, ma che non sono immuni al cancro”.

Nonostante l’impegno del personale sanitario per eseguire un esame più accurato possibile e superare le difficoltà, l’on. Noja racconta del momento di sconforto seguito all’esame. Scrive: “Nessuno se ne è accorto, ma ho dovuto proprio ricacciare giù le lacrime per la rabbia. Rabbia perché non è giusto che io e milioni di donne dobbiamo subire questa umiliazione per avere accesso alle cure e alla prevenzione. Perché siamo resilienti ma, così come esiste l’accumulo nell’uso dei farmaci, esiste anche l’accumulo nella fatica e nella frustrazione quotidiana. Perché la discriminazione abilista non è fatta solo di fatti violenti o episodi eclatanti. Molto più spesso è il frutto di un’attitudine verso il mondo che espelle dalla realtà un pezzo di umanità, senza nemmeno rendersene conto”.

Abbiamo raggiunto l’On. Noja per rivolgerle alcune domande e approfondire i contenuti di questa importante testimonianza.

Sappiamo che la tecnologia non è neutra, ma ripete gli stereotipi e i pregiudizi di chi la progetta. Per superare i bias abilisti su quali livelli si deve agire?
Anzitutto sul livello culturale. Il tema delle donne con disabilità fa fatica a entrare nella narrazione dei movimenti più mainstream, che in questi ultimi anni hanno risvegliato le coscienze sui temi della violenza di genere, sulla parità, sulla riscoperta dell’amore verso se stesse e il proprio corpo da parte delle donne. Come il #metoo era una chiamata rivolta a tutte nel fare un passo avanti e riconoscere il problema, così vorrei che si creasse quella consapevolezza culturale sulla disabilità che poi serve ad agire in modo pratico sulla progettazione della tecnologia e degli spazi.

Ci sono attiviste sui social che si dedicano a diffondere questa consapevolezza, ma questi spazi di discussione sono ancora delle nicchie. Io penso alle influencer che parlano al grande pubblico, che si rivolgono a persone che di per sé hanno meno attitudine ad andare a fondo su certi temi, loro potrebbero fare molto in questo senso. Oggi le lotte contro l’omofobia appartengono anche agli eterosessuali, così sarebbe bello che ci fosse lo stesso passaggio sulle lotte contro l’abilismo, che non riguardano solo le persone con disabilità, ma hanno a che fare con la qualità della vita democratica del nostro paese. All’interno di questa battaglia va compreso che le donne spesso subiscono una discriminazione più profonda perché si somma alle discriminazioni di genere che ne rendono più difficile il percorso di affermazione sociale.

Il ruolo delle istituzioni è fondamentale, ce lo hanno dimostrato le quote rosa che hanno fatto emergere molte competenze sommerse. Cosa sta facendo di concreto la politica per sanare il gap dovuto all’abilismo?
Abbiamo approvato una mozione all’unanimità che riguardava proprio le donne con disabilità, ormai un anno fa, con cui abbiamo cercato di affrontare questi punti specifici. Con un mio emendamento l’abilismo era entrato anche nel ddl Zan. Uno dei rammarichi per come poi sono andate le cose è anche che si è persa un’occasione in questo senso. Credo che la ministra Bonetti stia lavorando in una direzione che va a includere il tema delle donne con disabilità nelle grandi iniziative sulle pari opportunità. Ma la politica deve ancora probabilmente fare un grande sforzo di racconto per passare il tema al grande pubblico.

Per far comprendere che la difficoltà della vita di una donna disabile ha a che fare con quella quotidianità non percepita che riguarda l’accesso ai servizi della medicina, l’accesso al lavoro, la maternità. Spesso non si prende neanche in considerazione che una donna disabile possa avere figli, il suo corpo è visto come asessuato. In realtà una donna disabile ha gli stessi problemi di tutte le altre donne ma moltiplicati.

Nel suo post ha scritto: “Io sono una persona riservata rispetto alle mie questioni private”. Cosa l’ha spinta a squarciare il velo su un suo momento di vita privato?
Tendenzialmente sono una persona riservata. Non ho mai vissuto la mia disabilità come una caratteristica premiante. È un ostacolo per tante cose, ma non mi definisce. Ho imparato facendo politica che a volte calare dei messaggi in un’esperienza personale li rapporta a un pezzo di mondo che altrimenti resta invisibile. E questo da una parte fa sentire alcune persone meno sole, dall’altra risveglia consapevolezza in chi nemmeno immagina un’esperienza del genere. L’importante è che una volta vista l’esistenza di queste esperienze le facciamo diventare qualcosa che ci riguarda.

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