Perchè scegliamo di cambiare anche se non ci rende più felici

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Quando succede qualcosa di grande nelle nostre vite, di rado ci rende più felici. Ho letto qualche tempo fa una ricerca (che non trovo più!) che indicava che la maggioranza delle persone preferirebbe una vita tranquilla a una vita interessante. Potrebbe suonare triste, ma è la cruda verità: i cambiamenti ci agitano e comportano sempre imprevisti, quindi fatica, adattamento, rischi. Eppure chi negherebbe che sono proprio i grandi eventi – programmati o inaspettati- a dare un senso alle nostre vite?

Innamorarsi, avere un figlio, iniziare un lavoro, ammalarsi, perdere una persona cara, cambiare lavoro: hanno questi nomi le tappe della nostra vita, quelle che alla fine le avranno dato una forma e avranno composto l’essenza di chi siamo. Ma nessuno di questi grandi eventi, nella sua quotidianità, è garanzia di felicità. Una ricerca condotta su 909 madri lavoratrici dallo psicologo Daniel Kahneman, autore di libri fondamentali come “Pensieri lenti e veloci” e il più recente “Rumore”, indaga proprio la relazione tra la soddisfazione che una certa attività provoca e le reazioni emotive che dà nel suo dispiegarsi quotidiano: come sono collegati per esempio la soddisfazione dell’essere madre con le emozioni provocate dall’interazione con i figli? Non sono poche le ricerche emerse negli ultimi anni che sottolineano come i genitori esprimano meno felicità dei non genitori, al punto che il professor Dan Gilbert di Harvard ha scritto

“L’unico sintomo della sindrome del nido vuoto è il fatto di non riuscire a smettere di sorridere”.

La quotidianità, insomma, mette alla prova le migliori narrazioni: dimensioni di vita che sono alla base della nostra identità si rivelano, nella loro ricchezza e complessità, sfide quotidiane che comportano stanchezza, emozioni e pazienza, tanto che alla fine, se la scelta tra le cose da fare potesse essere solo teorica, potremmo preferire il non essere all’essere.

Certo, impressiona vedere la lista di attività quotidiane di una madre lavoratrice stilata nella ricerca di Kahneman, e si empatizza facilmente con la curva della stanchezza che segue le signore nell’arco della giornata (da notare che le madri sotto i 30 anni si svegliano al mattino sentendosi più stanche delle madri più avanti negli anni: dipenderà dalle notti insonni o dall’abitudine?), e non sorprende che le attività che danno emozioni più positive siano quelle sociali, di amicizia e svago, tra cui la preghiera, la TV, la ginnastica… ma persino cucinare e stare al telefono vengono prima dello stare con i figli (che però precede il computer, le pulizie di casa e il lavoro). E cosa c’entra tutto questo col significato della vita, con scelte “importanti” come quella di diventare genitori?

I grandi eventi, con le dimensioni identitarie che producono in noi, influenzano il senso delle nostre vite, come racconta il prof Paul Bloom sull’Atlantic; eppure il senso delle nostre vite sembra avere poco impatto sul nostro sentirci felici. La felicità si esprime infatti nelle emozioni positive generate dalle attività quotidiane: la felicità è un attimo di consapevolezza e può giungere così inaspettata da passare inosservata. Intorno ai momenti di felicità c’è però una cornice molto più ampia, che ne rende possibile la comparsa ma che contiene anche molto, molto altro: è la cornice fornita dal significato che diamo alle nostre vite.

Il senso di cui riempiamo quel che facciamo dipende dal disegno che vediamo intorno alla nostra esistenza: da se e quanto lo vediamo, da se e quanto siamo in grado di metterlo in discussione e di aggiornarlo quando le circostanze lo richiedono. E’ un perimetro che non ha una forma ottimale: può essere lineare o frastagliato, più o meno grande e irregolare, ed è in continuo cambiamento. E’ il perimetro che sta stretto a chi, dopo un grande evento come una pandemia, una maternità, una malattia, non riesce più a farlo corrispondere al senso della propria vita: noi cambiamo forma e dobbiamo, di conseguenza, cambiare vestito e rappresentazione di noi stessi.

La domanda se avere un figlio, un amore, un lavoro, un sogno… ci rende più o meno felici è quindi una domanda che nasce spuria in partenza: la domanda da farsi potrebbe essere se riusciamo a continuare a dare un senso agli eventi della nostra vita – che ci capitano o che abbiamo scelto. Le nostre giornate sono fatte di orari, attività, incombenze, routine ed emozioni, qualche volta scoperte, imprevisti e sorprese; le nostre vite, intanto, le circondano con il loro senso in continuo aggiornamento, e a darglielo (i narratori) siamo noi.

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  • Michele |

    …ma perché si parla sempre e solo di donne, madri, lavoratrici? La nostra società è ormai piena di uomini, padri, lavoratori che subiscono i luoghi comuni del marito assente e menefreghista.

  • Nicola Liberati |

    DISCERNERE PER …continuare a dare un senso agli eventi della nostra vita

  • Un sincero padre lavoratore |

    sarebbe bello che si iniziasse anche a parlare qualche volta dei padri lavoratori. che oggi non sono più così pochi. sarebbe bello che la parità iniziasse a propendere meno verso un solo lato della bilancia di genere.

  • Ermes |

    Ho letto attentamente il suo articolo! Credo sia molto aderente alla realtà che viviamo oggigiorno. Complimenti!

  • Ermes |

    Magistrale! Complimenti!

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