E’ il tempo delle sportive. Sono loro a diventare sempre di più modelli per l’immaginario femminile delle generazioni più giovani. Non solo in campo e per le loro vittorie, ma anche e soprattutto per le loro fragilità e le battaglie sociali di cui si fanno portavoce. Negli stati uniti, naturalmente, il trend è molto più evidente poiché storicamente gli sportivi usano la propria notorietà per sostenere campagne sociali e far sentire la voce di chi non ce l’ha. Sono rimasti, ad esempio, scolpiti nella storia delle Olimpiadi i pugni alzati al cielo da Tommie Smith e John Carlos in nome del ‘Black Power’ sul podio dei 200 metri a Città del Messico nel 1968.
A distanza di 53 anni i due velocisti hanno sottoscritto una lettera di 5 pagine, firmata da oltre 150 atleti per chiedere al Comitato olimpico di Tokyo 2021 di non sanzionare gli atleti che avessero deciso di manifestare per i diritti o esprime alle Olimpiadi il proprio pensiero su temi sociali. Il Cio ha cambiato la regola 50 che vietava ogni manifestazione politica. Ora la nuova norma consente di farlo prima e dopo la gara, non durante la competizione o sul podio.
Il coraggio di definirsi
Le Olimpiadi di Tokyo hanno segnato, comunque, una svolta in questa direzione anche per Nazioni, come l’Italia, meno abituate all’attivismo sociale dei propri atleti. Se Tom Daley, il tuffatore medaglia d’oro nel sincronizzato dalla piattaforma di 10 metri assieme al compagno di squadra Matty Lee, dopo la gara si è detto orgoglioso di essere gay, Lucilla Boari, dopo la medaglia di bronzo nel tiro con l’arco, ha presentato la propria fidanzata l’arciera olandese Sanna de Laat. E questi sono stati solo due esempi fra i molti di questa estate sportiva.
Mettersi al primo posto
Le atlete con il loro esempio stanno diventando icone di leadership portando avanti le proprie convinzioni. Si prenda l’esempio di Simone Biles, che si è ritirata a Tokyo dopo il quinto giorno di gare e dopo le Olimpiadi ha dichiarato: “Avrei dovuto smettere molto prima di Tokyo”.Biles ha scoperto di avere i “twisties”, un fenomeno in cui il corpo e la mente si disconnettono. La pluri medagliata ginnasta ha affrontato temi da sempre tabù come la salute mentale e le conseguenze psicologiche dall’abuso sessuale da parte dell’ex medico di ginnastica statunitense Larry Nassar.
Biles, nelle sue interviste post Olimpiadi, ha spiegato apertamente il motivo per cui ha abbandonato le competizioni senza ricorrere a cause fittizie, diventando così esempio del potere della vulnerabilità anche su un palcoscenico pubblico. Ha riscritto la narrativa che ha sempre contraddistinto coloro che condividono le proprie emozioni sul lavoro e ha messo in discussione l’idea che si potesse avere di lei: di una talentuosa ginnasta il cui unico scopo fosse vincere medaglie.
Prendersi cura di sé
Nel dare priorità al proprio benessere mentale e fisico ha aperto le danza a inizio estate la tennista giappo-americana Naomi Osaka. Il suo passo indietro al Roland Garros 2021 ha sicuramente fatto scalpore, soprattutto per la motivazione: prendersi cura della propria malata salute mentale. In un primo momento non sono mancate le critiche per la decisione e Osaka è stata etichettata come una “mocciosa arrogante e viziata” dal commentatore Piers Morgan e l’editorialista sportivo del Telegraph, Oliver Brown, ha criticato il suo “comportamento da diva“.
Ma Osaka ha rotto un altro tabù e soprattutto ha creato un precedente non solo per le atlete, ma più in generale per tutte le donne e le ragazze, che vivono situazioni di particolare pressione per i risultati attesi che si tratti di studio o di lavoro. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, mentre sia gli uomini che le donne soffrono di malattie mentali a un ritmo simile, condizioni come la depressione e l’ansia sono più comuni nelle donne. Non solo. Le donne vivono difficoltà maggiori dovute a “violenza di genere, svantaggio socioeconomico, reddito basso e disparità di reddito, status sociale basso o subordinato e responsabilità per la cura degli altri”. Ma quante hanno il coraggio di fermare tutto per prendersi cura di se stesse quando si è al limite?
Difendere i diritti altrui
Dal sé al noi. Il movimento “Black lives matter” ha assunto dimensioni internazionali ma è partito dagli Stati Uniti. Ma si tratta di iniziative che hanno radici anni addietro: nel 2016 Colin Kaepernick, quarterback della squadra di football dei San Francisco 49ers era rimasto seduto durante l’inno nazionale americano prima di una partita amichevole e di fatto era stato espulso dalla Nfl. Nello stesso anno le cestiste del Minnesota Lynx avevano fatto una conferenza stampa per lanciare l’iniziativa “Change Starts With Us”, sempre a favore dei neri americani.
Maya Moore, giocatrice delle Lynx, lasciò addirittura la Wnba al culmine della sua carriera per lavorare alla scarcerazione di un detenuto nero, Jonathan Irons, condannato a 50 anni di reclusione in seguito a una presunta rapina compiuta quando aveva 16 anni. Nel 2020 è stata riconosciuta l’innocenza di Irons, che è finalmente uscito di prigione dopo 26 anni.
Guidare il cambiamento
C’è poi chi fa tesoro delle proprie esperienze per lottare per gli altri. Nel 2018, Allyson Felix, l’atleta olimpica statunitense più decorata di tutti i tempi, ha deciso di avere un figlio pur essendo cosciente delle conseguenze che la maternità avrebbe potuto avere sulla sua carriera. E non tardò ad impararlo sulla propria pelle: al rinnovo del suo contratto lo sponsor Nike le offrì il 70% in meno di quanto guadagnava prima del parto. Felix ha deciso così di lasciare Nike, firmando con Athleta, un’azienda di abbigliamento più sensibile alle questioni di genere. La sua protesta pubblica di Felix ha portato a un cambiamento concreto: nell’agosto 2019 Nike ha infatti annunciato una nuova politica che garantisce la retribuzione di un’atleta incinta, che non può essere rivista nei 18 mesi di gravidanza e maternità.
Felix, però, non si è fermata lì: insieme al proprio sponsor ha lanciato “The Power of She Fund: Child Care Grants”, un fondo per l’assistenza all’infanzia che destinato 200.000 dollari di copertura per l’assistenza all’infanzia per 9 mamme-atlete che hanno gareggiato alle Olimpiadi 2021. Non tutte hanno la forza e la visibilità di Felix, ma certo la sua storia può essere di inspirazione a quante, mamme, lasciano il mondo del lavoro per condizioni che non favoriscono la conciliazione famiglia-lavoro. Provare a cambiare le cose si può e si può anche riuscirci.
Fare rete
Tornando all’esempio di Felix, certamente l’impatto di una mobilitazione collettiva sarebbe stato maggiore. Fare squadra, anche fuori dal campo, può fare la differenza anche in tema di conquista di diritti. Negli Stati Uniti un esempio di squadra “attivista” è certamente quella della Nazionale di calcio femminile. In occasione della finale dei mondiali di calcio 2019 in Francia, l’intero stadio ha inneggiato alla vittoria delle americane scandendo a gran voce “Equal pay!”. Le calciatrici, a partire da Megan Rapinoe (attivista anche dei diritti Lgbtq+), avevano da anni fatto della battaglia per una parità retributiva con i colleghi uomini la loro bandiera. Non ottenendo un risultato nonostante la vittoria della coppa del mondo (la quarta!) 28 giocatrici, tra attive attualmente ed ex, si sono uniti nella causa contro la US Soccer Federation e nel 2021 si sono assicurate un contratto identico a quello dei calciatori della Nazionale maschile.
Il potere dell’alleanza trasforma la consapevolezza in azione e rende più raggiungibili risultati che sembravano impensabili. Con il loro coraggio di non limitarsi ad essere delle supereroine in campo e sul podio, le atlete stanno disegnando nuovi modelli per tutte quelle bambine, che stanno scoprendo l’adrenalina di una partita, la tensione di una gara e stanno affrontando magari il pregiudizio nei confronti di scelte non ancora entrate nella cultura della nostra società. Quelle bambine hanno bisogno di idoli a cui ispirarsi. Queste donne di sport stanno regalando loro il sogno di un futuro possibile.
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