Home working, dall’emergenza a una nuova normalità tutti gli esempi europei

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Dal 1 gennaio i datori di lavoro olandesi potranno sostituire il contributo per coprire le spese di viaggio dei dipendenti verso l’ufficio con un più generico rimborso per i costi di home office. Sicuramente attraente, anche perché meno costoso per le aziende, risponderebbe ai desideri di molti lavoratori e ridurrebbe le emissioni di CO2 dovute agli spostamenti quotidiani. Lo conferma uno studio della Travel Differently Coalition condotto su più 6mila interessati, che inoltre indica il desiderio diffuso di viaggiare più frequentemente coi messi pubblici, in bicicletta o a piedi. Certo da queste parti già prima della pandemia non era troppo strano negoziare riduzioni di orario o qualche giorno di home working.

Oggi è però chiaro che in tutto il mondo la risposta alla crisi sanitaria ha scardinato pesantemente parte dello status quo del lavoro dipendente. Ha intensificato il dibattito sull’opportunità di trasformare l’home working da pratica temporanea a prassi consolidata, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra costi e benefici sia per i dipendenti che per datori di lavoro. Ma se sono chiari rischi, limiti e allo stesso tempo opportunità per tutte le parti in causa, ancora la situazione è gestita in modo emergenziale e transitorio praticamente ovunque. Nonostante più o meno a breve i Governi dovranno interessarsi di guidare il cambiamento verso una realtà lavorativa diversa da quella conosciuta fino a qui.

In Europa, pre-pandemia solo il 5% svolgeva regolarmente la propria attività in home working. Un anno e mezzo dopo questa percentuale in alcuni Paesi è più che quadruplicata, con Lussemburgo, Finlandia e Irlanda a registrare i numeri più alti. Eppure, anche se vista da molti come una modalità imprescindibile del lavoro di domani, da inserire nelle offerte delle aziende, al momento non sembra trovare ancora risposte normative estese. Solo la Germania ha trasformato le intenzioni in leggi: è obbligatorio offrire al dipendente la possibilità di lavorare da casa – a meno che, ovvio, ci siano ragioni operative impellenti che lo impediscano.

In quasi tutti gli altri casi la regolamentazione dell’home working resta vaga. Esempio ne è il Regno Unito dove, nonostante Downing Street stia valutando la possibilità di introdurre regole per renderla un’opzione di default, molti pareri avversi stanno rallentando se non proprio deragliandone l’attuazione. Nemmeno in Francia la possibilità di lavorare in remoto è scontata e persistono sacche di discrezionalità. Di fatto ancora si tratta più di una questione gestita dalle singole aziende che, comunque, ufficialmente dovrebbero fornire una ragione credibile per negare la richiesta del dipendente. Anche dove esiste al momento un regime specifico, come in Portogallo il primo a rendere l’home working obbligatorio, si tratta di una situazione temporanea che probabilmente si concluderà a fine anno.

Una regolamentazione oltre l’emergenza

La tecnologia e un adattamento rapido delle procedure di fronte alla crisi globale hanno permesso un facile trasferimento del lavoro dall’ufficio alle case. Senza questo moltissime realtà non sarebbero sopravvissute nonostante eventuali aiuti statali offerti. Allo stesso tempo, il ribaltamento di pratiche che erano comuni pre-pandemia, ha imposto di ripensare al lavoro “in ufficio e di ufficio”, (ri)messo sul piatto la possibilità di normalizzare altre modalità ed evidenziando anche tutte le implicazioni connesse.

Non si è, per esempio, verificata la temuta perdita di produttività legata alla distanza tra il datore di lavoro o un team leader e i collaboratori anzi in molti casi è successo il contrario con un’ulteriore riduzione del turn over. La lontananza dal posto e dal gruppo di lavoro però ha messo più a rischio le opportunità di carriera, soprattutto per giovani e donne. Ha aumentato il pericolo di isolamento ed esclusione dai piani di sviluppo e dalle decisioni aziendali di varia natura. Senza contare quanto poi abbia fin qui inciso sulle strutture cittadine e sui servizi collaterali che prosperano attorno al pendolarismo – dai ristoranti ai servizi di lavanderia, dai catering per eventi alle palestre vicine ai palazzi uffici.

È indubbio che alla aumentata domanda di home working non è possibile rispondere con una soluzione univoca o circoscritta. “Nemmeno i campioni del digitale che affittano i più costosi spazi ufficio della Bay Area a San Francisco si erano resi conto prima del Covid che i loro dipendenti potevano lavorare efficacemente anche da casa”, si legge su un recente articolo del think tank Bruegel.Eppure la transizione da una struttura ben definita a un’altra, non può essere gestita con il pilota automatico. Quello che abbiamo visto in questo esperimento di massa e che succederà da qui in avanti è rilevante anche in termini sociali”.

Si tratta, insomma, di un bilanciamento difficile da trovare che si non può pensare di risolvere con le stesse misure valide fino a qui. Nè di lasciare gestire alle singole realtà (con il rischio concreto, per esempio, del diffondersi di pratiche di video-controllo da parte dei datori di lavoro) evitando di trovare soluzioni durature ed estese, valide oltre l’emergenza.

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  • gloria |

    Beh che dire, il cambiamento è sempre difficile da attuare. Siamo alle soglie del 2030 e ancora ci domandiamo smartworking si smartworking no.Io penso ad una integrazione , ad un buon bilanciamento che dovrà essere gestito da azienda e azienda , da Pa. tenendo conto delle esigenze della persona, dell’azienda e del sistema produttivo.Un sistema di lavoro armonico, pensato a 360 gradi anche con spazi di relax e con flessibilità e agibilità garantendo sia i bisogni delle persone che producono che del sistema produttivo vola in alto.Il benessere di ciascuno porta al benessere di tutti.Adottiamo una visione del lavoro globale e non meccanica.Itempi sono maturi per il cambiamento che finalmente deve avvenire. Il problema non è smartworking si o smartworking no ma diversa organizzazione del lavoro con l’utilizzo dello smartworking

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