“È stata la mano di Dio”, per guardare al passato e riscrivere il presente

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Nella mia esperienza la spinta a scrivere è sempre legata alla mancanza di qualcosa che si vorrebbe conoscere e possedere, qualcosa che ci sfugge”, scriveva Calvino nel 1983 in Mondo scritto e non scritto. Si può immaginare una spinta simile dietro l’ultimo film di Paolo Sorrentino, “È stata la mano di Dio”, che ha vinto il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria alla 78° edizione della mostra del cinema di Venezia e che uscirà nelle sale (e poi su Netflix) a novembre.

Sorrentino bussa alle porte del passato e ci racconta un passaggio delicato e doloroso della sua vita, l’attraversamento della linea d’ombra. Sedici anni, nel pieno dell’adolescenza, Fabietto – alter ego del regista – non ha amici e neppure una ragazza. Ma è l’estate del 1984 e a Napoli arriva Maradona, l’idolo di tutti, che per un gioco del destino gli salva la vita. Per vedere una partita di Maradona, infatti, Fabietto rinuncerà a raggiungere i genitori nella casa di montagna. Quella notte apprenderà che i genitori, a causa di una fuga di monossido di carbonio da una stufa, hanno perso la vita.

Fabietto, insieme ai suoi fratelli, deve imparare cosa significhi andare avanti e lo fa ponendo la narrazione al centro della propria esistenza. Attraverso il sogno del cinema e l’occhio di una videocamera, scopre il potere della narrazionefunzione mentale fisiologica e indispensabile, quasi quanto il respirare.

Il cinema, disse Fellini in un’intervista, serve a distrarsi. “A distrarsi da cosa?”, chiese il giornalista. “Dalla realtà, perché la realtà è scadente” rispose il maestro. Ma oltre che a distrarsi serve a narrare, a gettare uno sguardo dall’altro lato delle parole, a sfiorare ciò che non è stato afferrato, compreso, risolto, che rimane nell’ombra e “che cerca d’uscire dal silenzio”, direbbe ancora Calvino.

In questo film Sorrentino ci accompagna nella sua adolescenza, fatta di turbamenti davanti a corpi nudi e sorelle eternamente chiuse in bagno, festose riunioni familiari, gesti d’amore immenso, liti furibonde e urla notturne animalesche. Oltre alle “vagonate di dolore”, per citare Bukowski, il regista ci comunica tutta la potenza dell’amore e delle risate: Fabietto cresce tra le battute esilaranti del padre, interpretato da un magistrale Toni Servillo, e l’entusiasmo della madre, che fa la giocoliera con le arance e inventa scherzi per le vicine di casa. “Non me li hanno fatti vedere” urla il sedicenne Fabietto: una morte improvvisa, quella dei suoi genitori, che non si può vedere e neppure afferrare, com-prendere, ossia tenere dentro di sé.

Varcare la linea d’ombra dell’adolescenza, smettere di essere Fabietto e diventare Fabio, è possibile anche grazie all’incontro con adulti capaci di indicare la strada. “Guarda al futuro”, gli dice la baronessa, iniziandolo alla sessualità e mostrandogli una direzione fuori da quel passato eternamente presente che il trauma spesso porta con sé. “Non disunirti”, gli suggerisce il regista Antonio Capuano, che nel film interpreta se stesso, in un meraviglioso dialogo nella Napoli notturna. Non disperderti, sembra dirgli, non lasciare che il dolore ti faccia a pezzi, non perdere il filo della narrazione.

Raccontare è ricordare, organizzare, dotare di senso: noi siamo i nostri racconti. Ma è anche trasformare i ricordi, perché la narrazione è in grado di modificare l’esperienza, come ci insegnano studi recenti sulla memoria: ogni storia tiene traccia dello specifico contesto e del momento della vita in cui viene narrata, del particolare stato emotivo e mentale in cui ci troviamo, degli interlocutori reali o immaginari che abbiamo di fronte. Sorrentino in questo film opera selezioni e ristrutturazioni, aggiunge particolari, mescola gli ingredienti della sua memoria con altri inventati. Non contano i fatti, ma le emozioni e gli affetti. Non mi ha sorpreso leggere sui giornali che abbia chiesto a Servillo e alla Saponangelo, che nel film interpretano i suoi genitori, non di essere fedeli a ciò che si era conservato nella sua memoria, ma solo di far apparire quanto fossero innamorati.

Siamo esseri che fanno esperienza, non siamo la nostra esperienza”, per dirla con le parole della nota psichiatra americana Robyn Walser. Possiamo lasciare che ciò che ci è successo e che i traumi che abbiamo affrontato scrivano le pagine della nostra vita o provare a tenere vivo il nostro potere narrativo, la nostra capacità di “fare esperienza” e raccontare una storia, da nuovi punti di vista.

Capita, con l’andare degli anni, che ci si volti indietro e si torni nei luoghi in cui qualcosa si è spezzato: li si può ripercorre e riguardare con occhi, pensieri, emozioni diversi. E magari, se si è fortunati, fare qualche scoperta, un piccolo dono inaspettato, qualcosa di buono.

Sorrentino dice di essersi sentito pronto a scrivere un film autobiografico al compimento dei 50 anni. A Venezia, nel discorso alla consegna del premio, ha anche raccontato cosa abbia significato per lui questo film, con un’emozione che ha contagiato e commosso tutti, anche chi come me seguiva la premiazione davanti alla televisione. Al funerale dei genitori aveva avuto accanto a sé solo quattro dei suoi compagni di classe, autorizzati ad essere presenti in rappresentanza della scuola; con questo film è riuscito a riunire e a sentire accanto a sé l’intera classe dei compagni: non della scuola ma della vita. Riattraversato lo stesso fiume, dall’altra parte ha trovato un abbraccio.

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