Amministrative, e le donne dove sono finite?

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Il 50% dei Comuni sotto i 5.000 abitanti coinvolti nella tornata elettorale 2021 non centra l’obiettivo quote rosa. E’ il principale dato che emerge dal rapporto del Csel, elaborato per l’Adnkronos in occasione della tornata elettorale delle amministrative.  Non che la situazione sia diametralmente opposta nelle maggiori città italiane. Dopo l’ultima tornata nessuna donna sarà al ballottaggio per l’elezione a sindaco. E’ questo uno dei dati certi di questo voto. Non ce l’ha fatta Virginia Raggi a Roma e nemmeno Valentina Sganga a Torino e Laila Pavone a Milano. Ad andare avanti solo candidati uomini. Già le premesse non erano ‘rosa’: su 145 candidati sindaco nei 17 comuni capoluogo delle Regioni solo 25 erano donne. Il 17.24% contro l’82.76 degli uomini, come testimonia il rapporto del ministero dell’Interno.

Da dove partiamo?

Nel giugno scorso, ricorda il Centro Studi enti locali, la terza sezione del Consiglio di Stato aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale sulle norme che regolano le elezioni nei Comuni fino a 5.000 abitanti. Sebbene il nostro ordinamento giuridico stabilisca il principio generale che nelle liste dei candidati debba essere “assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi”, di fatto nei comuni di piccole dimensioni, non è previsto alcun meccanismo sanzionatorio ove venga meno il rispetto della parità di genere.

E’ giusto che non ci sia di fatto un vero e proprio obbligo di rispettare questo principio nella categoria di enti che comprende il 70% dei comuni italiani? In attesa che la Consulta si esprima su questo tema, Centro Studi Enti Locali ha, dunque, analizzato i dati diffusi dal Viminale relativi alle liste ammesse alle elezioni amministrative 2021 relativi alle Regioni a statuto ordinario, per capire che tipo di impatto avrebbe una eventuale estensione dei vincoli anche agli enti di minori dimensioni. Sebbene ci sia stato qualche timido miglioramento rispetto al 2020, l’obiettivo quote rosa è ancora ben lontano dall’essere raggiunto nelle amministrazioni al di sotto dei 5000 abitanti. Sono 755 Comuni con queste caratteristiche, chiamati alle urne tra il 3 e il 4 ottobre nelle Regioni a statuto ordinario, solo 384 hanno schierato almeno 1/3 di candidati di sesso femminile. Praticamente uno su due, esattamente come lo scorso anno.

In 79 comuni (contro i 63 del 2020), i candidati uomini hanno rappresentato percentuali superiori all’80% del totale. Due i casi limite: Prunetto, un comune di 471 abitanti in provincia di Cuneo, e Pescolanciano, nell’isernino (878 abitanti), in cui c’è una totale assenza della componente femminile. Non lontano lo scenario che si prefigurerà nelle urne per gli elettori di Orero (Genova) e Borghetto d’Arroscia (Imperia), dove le liste sono al 100% maschili ma, se non altro, due dei tre aspiranti sindaco, sono donne.

Che la rappresentanza delle donne nell’ambito dei processi decisionali politici in Italia sia molto bassa non è certo una novità. Tra i segnali positivi, rispetto alla scorsa tornata elettorale, c’è però da segnalare che quest’anno ci sono 39 comuni (contro i 14 dello scorso anno) in cui i candidati di sesso femminile hanno superato quelli appartenenti al genere maschile. Particolarmente fuori dal coro il Comune di Santo Stefano Roero (1.407 abitanti), in provincia di Cuneo, che è l’unica amministrazione sotto i 5mila abitanti coinvolti in questa tornata elettorale, dove i due aspiranti sindaci (un uomo e una donna) hanno schierato due squadre tutte al femminile. Non sarà un caso che si tratti di una amministrazione che ha vissuto, nel recente passato, un dissesto e un commissariamento?

I due generi sono ripartiti in maniera equa in 119 enti, con i 12 dell’anno scorso. Nei restanti 599 casi (pari all’80% del totale), i candidati uomini sono stati più di quelli di sesso femminile. Complessivamente le donne schierate nelle liste esaminate sono 4955 su 10.099, vale a dire il 32,87%. Un dato in leggero miglioramento rispetto al 2020 in cui la percentuale era del 31,8%. Per quanto riguarda i candidati alla carica di primo cittadino, la percentuale complessivamente ancora più bassa: le aspiranti sindache sono solo 255 su 1.539, pari al 16% del totale. In ben 533 casi su 755, non c’è alcuna rappresentante del gentil sesso a contendersi la fascia tricolore.

Qual è la disciplina vigente?

Ci sono criteri diversi che vengono applicati in base alla dimensione dell’ente. I vincoli più stringenti sono quelli previsti per i Comuni con più di 15.000 abitanti. In questi casi nessuno dei due sessi può essere rappresentato in ciascuna lista in misura superiore a due terzi dei candidati ammessi. Il mancato rispetto di questo vincolo comporta che la Commissione elettorale circondariale possa ridurre le liste cancellando, partendo dall’ultimo, i nomi dei candidati appartenenti al genere sovrarappresentato. Nel caso in cui, una volta operata questa riduzione, il numero di candidati ammessi sia inferiore a quello minimo previsto, si incorre nella ricusazione della lista.

Per gli enti con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti, il mancato rispetto delle quote rosa implica la riduzione della lista, sempre mediante la cancellazione dei nomi dei candidati appartenenti al genere rappresentato in misura eccedente i due terzi dei candidati. Per i Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, come anticipato, l’approccio alla questione di genere è più blando. L’unica previsione sul tema è quella stabilita dall’art. 2 della Legge 215/2012 che dispone che “Nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi”. Non sono però previste specifiche misure correttive e/o sanzionatorie a carico delle liste che non assicurino almeno un terzo di donne tra i candidati.

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