Tornare in ufficio senza perdere il cuore

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Alzi la mano chi in questi mesi non ha fatto un applauso o mandato un emoticon, per esempio un cuore, a un collega durante una riunione. Credo che lo abbiamo fatto in molti, cercando così di supplire alla mancanza di feedback emotivo generata dalla connessione da remoto: alla mancanza di calore che uno sguardo diretto e ben assestato avrebbe potuto trasmettere. Ci siamo fatti applausi, abbiamo alzato pollici e mandato cuori per complimentarci e far sentire che stavamo ascoltando, che eravamo lì. In chat abbiamo forse osato dire cose che di persona ci avrebbero intimidito un po’, alzare la mano con un clic ci è sembrato più facile che prendere la parola intorno a un tavolo – salvo poi subire tutta l’ansia da prestazione che parlare in una telecamera comporta.

Ci siamo insomma misurati con comportamenti nuovi che, come sempre succede, ci hanno fatto scoprire aspetti diversi di noi stessi e degli altri – e la parola chiave è proprio “scoprire”. Etimologicamente, la parola scoprire vuol dire “rimuovere ciò che nasconde”: non è che nascondessimo intenzionalmente qualcosa, col nostro “vecchio” modo di lavorare, ma l’effetto di copertura nasceva dalle abitudini consolidate, da quella veste di professionalità che ci faceva condividere dei codici – gli stessi da diversi decenni – che allineavano le nostre aspettative, riducendo la fatica della relazione ma anche le possibilità di scoperta. E allora, da lontano e attraverso lo schermo di un PC, qualche volta abbiamo osato di più.

chris-montgomery-smgtvepind4-unsplashUna delle reazioni più coraggiose consentite dai software di video conferenza è stata proprio quella di poter inviare un cuore: meno ammiccante del pollice alzato e forse per questo più utile a superare l’ostacolo della distanza fisica, il cuore compariva come un francobollo nella finestra del mittente, indice di emozione condivisa, segnale di empatia. Come lo sostituiremo quando torneremo in presenza? Ci consentiremo di unire le dita delle due mani per trasmettere un segnale simile? Ci doteremo di palette colorate e potremo alzarle per sostenere silenziosamente la posizione di un collega, segnalandogli la nostra approvazione? Oppure torneremo a un più generico annuire, che però vale veramente per tutto e può indicare anche solo che abbiamo sentito, non che concordiamo davvero?

Quando riprenderemo – nelle intenzioni di alcuni, come se niente fosse accaduto – a incontrarci nelle nostre familiari sale riunioni, che cosa resterà delle nostre nuove abitudini? Sapremo – e vorremo – vestire di nuovo il vecchio abito professionale (“professionalismo”, lo definisce Jon Friedman, Vice President di Microsoft Design, su Fast Company): quello che, coprendoci, ci rendeva prevedibili e protetti, quasi impossibili da scoprire?

C’è una possibilità, nel prossimo movimento di “ritorno”.
E’ nascosta nell’opportunità che ci diamo di pensare a questo ritorno come a un passo verso il futuro e non verso il passato.

Ci siamo fatti vedere, ci siamo scoperti, ci siamo lanciati e sbilanciati – obtorto collo spesso: d’altronde come nascondere un bambino che si affaccia alla webcam, un cane che abbaia, il rumore di una lavatrice in funzione? – siamo stati anche coraggiosi nell’adottare codici di comunicazione nuovi, rivelando il bisogno di dirci di più e la capacità di avere più cose da dire. Non facciamoci rinchiudere, né fisicamente né mentalmente: non indossiamo di nuovo la divisa. Portiamo con noi tutto quel che è possibile caricare sulle spalle di un corpo che torna a muoversi, ma che non è lo stesso di due anni fa. Facendolo, non solo eviteremo la fatica di trattenere quel che ormai c’è, ma potremo anche portare con noi – in ufficio e nelle sale riunioni, dai clienti e poi di nuovo a casa – molto più cuore.

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