Strategici in teoria, poco operativi ed efficaci nei fatti. I programmi di Diversity & Inclusion in Italia sono stati avviati da meno della metà delle aziende (43%), mentre a livello globale due terzi delle organizzazioni ha già iniziative specifiche (75%)
Avviarli è il primo passo, poi però devono essere condivisi dai collaboratori ed utili. Invece anche nei casi in cui le iniziative sono presenti, più della metà delle persone coinvolte nelle attività di D&I (57%) dichiara di non averne beneficiato. E – dato allarmante – più di un dipendente su 5 in Italia (22%) ha lasciato l’azienda a causa di un ambiente di lavoro poco inclusivo.
I dati dello studio di Boston Consulting Group “It’s Time to Reimagine Diversity, Equity, and Inclusion” – bastato su un’indagine tra 25 mila dipendenti a livello globale – sottolineano l’importanza di strutturare una strategia di D&I efficace, che altrimenti non solo costa tempo e denaro ma rischia di essere un boomerang. E per farlo quello che serve - si legge nella ricerca – è un nuovo approccio, incentrato sul riconoscimento di tutte le diversità e non solo quelle più evidenti o riconoscibili.
Perché ad oggi il concetto di diversity è limitato a favorire l’inclusione e l’equa rappresentanza dei gruppi demografici identificati come minoritari nel contesto aziendale. Ma non favorisce per esempio attenzione ed ascolto ai singoli collaboratori: meno di un terzo di loro a livello globale – e solo il 12% in Italia – crede che i propri manager siano disposti a supportarli in momenti di difficoltà .
“Le iniziative messe in campo, però, non sembrano generare i risultati sperati. Dallo studio emerge, infatti, che fino al 50% dei dipendenti intervistati a livello globale ha cambiato lavoro a causa dell’assenza di una cultura inclusiva e che il 55% di essi ha subito forme di discriminazione sul posto di lavoro. Al contempo, dati d’oltreoceano dimostrano che i dipendenti di colore si sentono mediamente dal 5% al 7% meno felici, meno motivati a dare il meglio di sé e meno liberi di essere se stessi sul posto di lavoro rispetto al resto della popolazione aziendale” si legge nel report Bcg.
Lo studio spiega quindi come – a partire da questi dati – sia urgente abbandonare l’attuale strategia basata su una logica di opposizione tra maggioranza e minoranza, a favore di un approccio più strategico, in grado di cogliere le differenze di ogni singolo individuo.
Certo è più complesso uscire da categorie pre-definite di “diverso” – comunemente quelle di genere, di orientamento sessuale, di etnia e di età – e mettersi all’ascolto di tutti i collaboratori. Ma sul lungo termine questo contribuisce ad accrescere il senso di appartenenza e di inclusione dell’intera comunità aziendale, con un impatto positivo anche sulla produttività.
“Non dobbiamo dimenticare, infatti, che differenze tra i dipendenti sono presenti anche all’interno delle stesse comunità che popolano l’azienda, come quella LGBTQI+: il 28% dei dipendenti americani under 35 all’interno della comunità è composto da persone di colore che si identificano come donne, mentre questa percentuale scende ad appena il 2% tra quelli over 55. Tali differenze vengono sottovalutate dai programmi di DE&I che, anche in questo caso, risultano inefficienti. Non a caso, il 75% dei dipendenti intervistati dichiara di aver vissuto interazioni spiacevoli legate alla propria identità nel contesto lavorativo. In queste circostanze, il 40% dei dipendenti LGBTQI+ non si sente libero di dichiarare il proprio orientamento al lavoro, sebbene il 26% di questi lo desideri. La situazione non migliora per gli individui che hanno fatto “coming out” al lavoro: il 54% tra questi continua a non rivelare questo aspetto in presenza dei clienti” spiega il report.
Le conseguenze negative di tale fenomeno si riversano anche sul business: i dipendenti LGBTQI+ che vivono situazioni spiacevoli in relazione alla propria identità di genere e orientamento sessuale sono il 40% meno produttivi e 13 volte più propensi a cambiare lavoro.
Ma come fare a conoscere le (tante) diversità poco evidenti di cui ciascuno di noi è portatore? Come intercettare l’intero spettro di diversità della popolazione aziendale, sempre più eterogenea?
La risposta, ovviamente, non può essere standardizzata! Ma deve partire dall’ascolto attivo di tutti i collaboratori, quello che in inglese si chiama demand-centric approach o un approccio più olistico e trasversale. Più faticoso certo ma più efficace, in base ai numeri della ricerca.
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