L’alcol ci può rendere migliori. Questa è la premessa, volutamente provocatoria, da cui parte il film di Thomas Vinterberg, Oscar come miglior film straniero, che si intitola “Un altro giro”, ambientato in Danimarca. Quattro professori di un liceo, all’inizio preoccupati per l’uso massiccio che dell’alcol fanno i ragazzi, decidono invece di cimentarsi in un esperimento di segno contrario, basato sulla teoria (reale) dello psichiatra norvegese Finn Skarderud, secondo cui un moderato stato di alterazione alcolica si rivela di beneficio per il corpo umano.
Questo apparente inno all’alcol si staglia su uno sfondo ricolmo di vite infelici, routinarie, spente, povere di passioni e dal sapore amaro, una su tutte quella del protagonista, interpretato da Mads Dittman Mikkelsen, che riceve inizialmente il maggior tornaconto dall’esperimento, e che peraltro fornisce a livello interpretativo una performance magistrale. Il film è, in sé, amorale, e non condanna apertamente l’uso di alcolici (l’intensa scena finale ne è la testimonianza), ma l’esperimento fallirà, in parte per il bisogno dei partecipanti di innalzare continuamente il livello di alcol da assumere, e in parte perché per uno di loro le conseguenze saranno decisamente tragiche.
E’ noto infatti che l’alcol sia una sostanza che induca alla dipendenza, com’è pur noto che, allentando i freni inibitori, possa favorire azioni estreme da cui la lucidità spesso ci tutela.
La società danese poi, come molte altre nordeuropee, è culturalmente abituata a considerare normale un certo tipo di abuso alcolico, tanto che la moglie del protagonista ad un certo punto dirà: “In questo paese tutti si ubriacano continuamente, che ci vuoi fare”.
Ma cosa succede qui da noi, e ai nostri giovani in particolare? Gli studi ci dicono che l’uso di alcol tra gli adolescenti è sempre troppo alto ed è in aumento tra le ragazze e di questo ne ho prova diretta dai racconti e dalle esperienze che raccolgo direttamente da loro, quando li incontro negli sportelli d’ascolto delle scuole o nello studio di psicoterapeuta. Non apriamo qui il capitolo della vera e propria dipendenza patologica, ossia della condizione in cui la bottiglia diventa un fine in sé e non un mezzo per ottenere un qualche beneficio sociale, condizione che si porta dietro tutti i sintomi delle dipendenze vere e proprie: ossessione, compulsione, impossibilità di fare a meno della sostanza e uno stato di alterazione permanente. Non approfondiamo neanche, non in questa sede, i ben noti danni fisici che l’uso ingente di alcol può portare ai giovani ma questa è una premessa necessaria, che va tenuta presente e a mente ogni qual volta parliamo di alcol in adolescenza (questo articolo spiega con chiarezza e semplicità alcuni punti chiave in merito).
Lasciati da parte questi due punti, seppur centrali, vorrei invece sottolineare alcuni aspetti psicologici collegati al bere moderato ma costante, su cui il film di Vinterberg offre molti utili spunti di riflessione. Più volte, nelle sedute di psicoterapia, ragazzi e ragazze hanno fatto affermazioni del tipo: “Quando sono brillo o ubriaco tutto è più facile e divertente!“, oppure “io riesco a parlare di me solo quando bevo”, e ancora “le serate senz’alcol sono noiosissime” o anche “senza alcol divertirsi è impossibile”. O come Giulio (il nome è di fantasia) che mi ha detto: “L’ho baciata, ma solo perché avevo bevuto, altrimenti non ci sarei mai riuscito!” e qualche giorno dopo: “Prima dell’interrogazione ogni tanto mi bevo un sorso d’alcol, così non mi blocco e inizio a parlare!”.
E’ come se, in effetti, apparentemente il bere sbloccasse delle risorse e consentisse a chi lo fa di sperimentarsi migliore, più divertente, più intraprendente, più loquace, più fluido. Da tempo immemore le persone usano gli alcolici a questo scopo, oltre ad apprezzarne il gusto dalle mille sfumature, ma c’è da dire che i giovani di oggi hanno una facilità mai vista di reperire alcol: i piccoli market lo vendono senza problemi, a casa ne trovano in abbondanza e spesso i genitori li incoraggiano a bere, o quantomeno non li scoraggiano particolarmente.
Ma una riflessione va fatta: l’adolescenza è un’età in cui la costruzione di sé è appena iniziata e la scoperta delle proprie risorse per molti aspetti deve ancora avvenire. Quanto è pericoloso, allora, che attraverso l’uso di una sostanza (l’alcol in questo caso, ma non solo) i giovani si illudano di poter diventare qualcuno che poi da sobri non sanno come ritrovare?
Perché, se da un lato io riesco a essere più simpatico e intraprendente quando bevo, e quindi posso sperimentare azioni gratificanti, come baciare una ragazza o far ridere gli altri, è pur vero che tale risultato non giunge dallo sforzo di collegarmi autenticamente alle mie qualità, che pur possiedo, e trovando il modo di farle emergere, ma mi appoggio ad una sostanza esterna. Il risultato paradossale è che sono sconnesso dalle mie reali potenzialità, e l’autostima, che salirebbe se quell’azione fosse il risultato di una mia fatica interiore consapevole, invece crolla, perché senza la stampella alcolica non riesco ad essere come vorrei. E sempre più spesso i ragazzi mi dicono di sentirsi fallimentari e inadeguati.
Ne risentono poi anche le relazioni, in cui a volte senza un certo grado di alterazione ci si vergogna troppo di avvicinarsi all’intimità, con conseguente aumento di vissuti di frustrazione e impotenza. Non riesco a conoscermi fino in fondo, da sobrio, né a conoscere veramente l’altro, e aumenta in me la confusione: chi sono io, quello che ubriaco si diverte e sa relazionarsi, oppure quello che, “scesa la sbronza“, si sente un fallito e incapace di vivere?
Oltre ai veri e propri danni cerebrali, dunque, un consumo massiccio e durevole di sostanze alcoliche non aiuta il giovane nel suo compito fondamentale di scoprirsi e di contattare anche i suoi limiti e le sue difficoltà. Prendendo consapevolezza di cosa non funziona ancora bene, infatti, potrebbe poi lavorare per costruire e migliorare le risorse necessarie a sentirsi adeguato e capace di vivere. L’alcol, invece, è un altro mezzo di fuga da se stessi, figlio perfetto di una società che vorrebbe rendere tutto “facile” e, soprattutto, non insegna a stare nel dolore, fosse anche solo quello fisiologico della crescita. Siamo in un mondo terrorizzato dalla sofferenza, che offre soprattutto mezzi di stordimento per eludere il contatto con quella quota necessaria di male di vivere che tocca a tutti, ma che si rivela trasformabile solo a patto che sia profondamente vista, accolta e accettata.
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