Il mese di giugno si è concluso con il rinnovo delle cariche di vertice del Grevio per il prossimo biennio. Iris Luarasi è la nuova presidente, Simona Lanzoni e Maria-Andriani Kostopoulou sono rispettivamente prima e seconda vice-presidente. Il Gruppo di 15, fra esperte ed esperti nominati dal Consiglio d’Europa sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne, è un organismo previsto dalla Convenzione di Istanbul. Tra i suoi compiti c’è principalmente quello di monitorare, anche attraverso visite di valutazione presso gli Stati firmatari, l’applicazione delle disposizioni che l’11 maggio hanno compiuto dieci anni.
Un organismo indipendente, insomma, chiamato a verificare in che stato siano i diritti umani nei nostri Paesi e a indagare quanto i nostri governanti siano riusciti a disarmare la violenza contro le donne in questi anni. A quella domanda la risposta è univoca: poco, sono riusciti a fare davvero ben poco.
L’Italia – che la Convenzione l’ha ratificata nel 2013 – è infatti sotto osservazione da molteplici punti di vista. E se è vero che ha adeguato la normativa in corsa (dalla legge del 2009 sullo stalking a quelle più recenti pensate per esempio per gli orfani delle vittime di femminicidio), continua tuttavia a mancare la visione d’insieme. La sintesi negli sforzi che impone coerenza e uniformità d’azione è probabilmente la prospettiva che, di legislatura in legislatura, a Roma non si riesce ad assumere.
È, a parere del Grevio, l’assenza di comunicazione e di coordinamento interistituzionale lo snodo su cui ruota tutto. La conseguenza fin troppo ovvia è che l’osservazione, cui gli esperti e le esperte del Consiglio ci hanno sottoposti, non poteva che restituire risultati tutt’altro che soddisfacenti. Negli ultimi anni in molti Paesi europei, incluso il nostro, sono state costituite nuove commissioni parlamentari (Portogallo, Turchia) e non mancano i piani d’azione per il monitoraggio. Neanche questo basta, i riscontri sono ancora, pressoché ovunque, troppo lontani da ciò che bisognerebbe aspettarsi.
Per quanto ci riguarda è più che eloquente il primo rapporto sull’Italia, pubblicato nel gennaio 2020 (ne abbiamo parlato anche qui e qui): servono maggiori misure di prevenzione per contenere il fenomeno. Ma non è tutto. “While acknowledging progress made to promote women’s rights, the report highlights that the cause of gender equality is facing resistance in the country with emerging signs of a tendency to reinterpret and refocus gender-equality in terms of family and motherhood policies“: insomma, pur riconoscendo i progressi, il Grevio evidenzia come la causa dell’uguaglianza di genere stia incontrando delle resistenze; resistenze – potremmo aggiungere – che sono tanto più forti perché di natura ideologica e culturale.
“Nel campo della protezione e dell’assistenza alle vittime, il rapporto ritiene che le autorità nazionali dovrebbero in priorità stanziare finanziamenti adeguati ed elaborare soluzioni che permettano di fornire una risposta coordinata e interistituzionale alla violenza“. Quello delle risorse è tasto dolente su cui i centri antiviolenza non smettono di battere, sono temi però che non si riesce a trasferire con facilità dai tavoli tecnici a quelli politici. Risale all’ottobre 2018, infatti, il documento trasmesso al Consiglio d’Europa e rubricato come Rapporto delle associazioni di donne sull’attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia ed è ancora attualissimo.
Il Grevio non fa sconti e segna in rosso gli errori più gravi: sono quelle lacune del sistema che continuano ad esporre le donne ai loro carnefici o che impediscono di agire contro le autorità statali, incapaci di incidere su prevenzione o protezione.
Dalle circa cento pagine del report c’è un dato che emerge, molto più nettamente di altri, e trova corrispondenza assoluta nei 33 femminicidi che hanno già listato a lutto il primo semestre di questo 2021 (se contiamo le donne uccise in ambito familiare il numero sale a 48): a continuare ad essere aggredite e a morire per mano degli uomini sono donne di ogni età, cultura, estrazione sociale e geografica.
Ma, come se non bastasse, è ancora una volta sulla risposta della giustizia che viene acceso un faro. In particolare, le esperte e gli esperti hanno eseguito una attenta disamina delle motivazioni rese dai giudicanti nelle sentenze dei tribunali.
Ciò che è venuto fuori è sconcertante. Una ricerca – che il rapporto cita in una nota, “La risposta penale alla violenza domestica – Un’indagine sulla prassi del Tribunale di Milano in materia di maltrattamenti contro familiari e conviventi”, C. Pecorella, P. Farina, 2018 – scoperchierebbe un vaso di Pandora. I nostri giudici avrebbero escluso il carattere abituale della reiterata condotta violenta, con un ragionamento che lascia davvero di stucco: “(1) laddove la reiterata condotta violenta abbia avuto luogo in un breve lasso di tempo, ad esempio perché la relazione intima è durata solo per un breve periodo; (2) laddove la violenza denunciata si sia verificata al termine di una relazione e non sia stata preceduta da alcuna denuncia, venendo dunque identificata come uno “stato di rabbia” occasionale; e, più comunemente, (3) laddove la vittima non sia stata ridotta ad uno stato di sottomissione passiva a causa della violenza“.
Ecco che qui le conclusioni sono davvero di estrema gravità: “La ricerca ha evidenziato come nei casi in cui la vittima abbia dimostrato la capacità di resistere e reagire alla violenza, quest’ultima sia stata ridimensionata ad una situazione di conflitto interno alla coppia. Al contrario, nei casi in cui gli autori di violenza hanno dominato e controllato la vittima, sono stati condannati per maltrattamento“.
Tra conflitto e violenza c’è una differenza che le operatrici conoscono bene, è sulla simmetria che si gioca l’intera partita: confondere la violenza con il conflitto significa non aver capito abbastanza del problema; ridurre la violenza al conflitto, sulla base alla resistenza della vittima, non è un mero errore ma è una scelta scellerata e inqualificabile. Nessuno potrà obiettare che non sia, in alcun modo, accettabile quell’idea di classificare la violenza, misurandola col termometro della capacità della vittima di “tollerare”. Conforta che se ne accorgano, oltre ad avvocate ed avvocati impegnati ogni giorno nella difesa dei diritti delle donne, anche gli esperti nominati dal Consiglio d’Europa che ci hanno rivolto Raccomandazioni inequivocabili e urgenti.
Ma, infine, per un’efficace azione di contrasto a quella che è una gravissima violazione dei diritti umani, cosa serve? A partire dalla prevenzione, fino alla raccolta e all’elaborazione dei dati, la formazione, l’attenzione alla intersezionalità e alle vittime straniere, alla vulnerabilità delle migranti, il documento è chiaro. Servono misure che garantiscano – anche attraverso un adeguato coordinamento e monitoraggio – che la violenza contro le donne sia affrontata in modo globale e integrato in tutto il territorio. E, come per tutto servono soldi, bisogna che lo Stato assicuri finanziamenti continui per i servizi di protezione e supporto per le sopravvissute e i loro figli e le loro figlie; serve un maggiore sostegno alle organizzazioni femminili indipendenti; serve che le politiche si attengano all’obbligo di dovuta diligenza; bisogna che la Convenzione abbia concreta attuazione, che le parti la garantiscano, senza discriminazioni fondate su sesso, genere, razza, colore, lingua, religione, opinioni politiche o di qualsiasi altro tipo.
Anche sul piano penale e su quello del processo da Grevio riceviamo critiche e inviti a migliorare: nella direzione di una gestione rapida delle indagini e dei procedimenti penali e di sentenze in cui la pena sia commisurata alla gravità del reato.
C’è, su tutte, una Raccomandazione che le avvocate e gli avvocati ogni giorni impegnati sul fronte delle relazioni violente certamente metterebbero in cornice, stampata a caratteri cubitali, nei loro studi: bisogna adottare ogni misura necessaria ad assicurare che i giudici tengano nella dovuta considerazione la violenza domestica nel momento in cui sono chiamati a decidere sui diritti di custodia e di visita dei padri maltrattanti.
E ciò sulla scorta di un presupposto troppo spesso dimenticato, ossia che il diritto alla bigenitorialità non può che recedere davanti al superiore interesse del minore, principio di cui sono ormai infarcite le nostre leggi ma che troppo spesso, nelle nostre aule di giustizia, resta inspiegabilmente lettera morta.
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