Non solo Naomi Osaka, aumentano i casi di burn-out e depressione

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Qualche settimana fa il ministro olandese dell’economia uscente, il 42enne Bas van ‘t Wout, ha comunicato la stampa e gli organi competenti: lascia il suo posto per 3 mesi per occuparsi del burn-out di cui è vittima. Si tratta, da queste parti, dell’ultimo di una serie di politici che lasciano il loro incarico perchéesauriti” dalle responsabilità, dalla fatica emotiva, dai ritmi e dalla pressione psicologica non certo nuove per certe posizioni, ma esacerbate da questi 18 mesi.

Questa che è una notizia locale, apre un vaso di Pandora in tema di salute mentale che preoccupa esperti e organizzazioni nazionali e inizia anche a incrinare alcune certezze delle aziende. La portata, l’intensità e la quantità di richieste di aiuto, aumentate esponenzialmente da inizio 2020, rappresentano un pericolo sociale ed economico. La necessità di adattarsi a un presente inaspettato e sconosciuto e la frequente sensazione di trovarsi nell’impossibilità (psicologica) di farlo, richiederanno una sempre maggiore attenzione specialistica. Ma per soddisfarla, al momento, non sembra ci siano le forze e le strutture adeguate. Inoltre, posti di lavoro considerati tossici minano le performance dei dipendenti, portano ad alti livelli di turnover e possono arrivare a incidere pesantemente sulle spese da sostenere per le organizzazioni. Una pandemia durante, dentro e dopo la pandemia.

Parlare di burn-out non è più solo occuparsi di casi isolati ed estremi, ma un’evento oggi vicino all’esperienza di tanti. E come mai prima sono conosciute, studiate e analizzate le sue sfaccettature, al punto da perdere parte dello stigma che l’ha accompagnato fin qui. È diventata infatti una condizione che colpisce senza distinzioni di sorta chi ha una qualche responsabilità, come nell’esempio olandese, gli sportivi (come Naomi Osaka, che non si è solo ritirata dal Roland Garros ma ha preso anche una pausa dal tennis per depressione) e cittadini comuni. Qualsiasi professione, tutte le età e entrambi i sessi. Beh, quasi: in realtà, secondo i numeri, le donne ne sono molto più colpite.

Iper-connessione e sovrapposizione tra casa e ufficio

I lockdown ripetuti e spesso durissimi e la necessità improvvisa e drastica di lavorare in smart-working, uniti al modello di lavoro contemporaneo hanno reso gli esaurimenti psicologici degli “stati accettabili”, commentava in maggio Sophie Gallager sul quotidiano inglese The Indipendet. Dopotutto, all’iper-connessione offerta da smartphone e linee dati veloci, si sono aggiunte per quasi tutti la completa fluidità tra ambiente di lavoro e casa e la difficoltà, anche a causa di questo, di mantenere orari di lavoro precisi. Oltre all’incapacità di disconnettersi dalle richieste del lavoro.

Se prima c’erano alcune, per quanto illusorie, attenuanti, con la crisi sanitaria è saltato tutto il sistema. “L’adrenalina sperimentata all’inizio della pandemia, ha sostenuto le persone” continua la Gallager, che aggiunge: “Tuttavia, con il procedere dell’anno, e la realizzazione che sarebbe stata una maratona e non uno sprint, il burn-out ha iniziato a diventare prevalente”. Eliminata anche la separazione almeno fisica tra lavoro e vita personale, la sensazione di “lavorare sempre” è diventata la nuova normalità. Lo stress, le responsabilità soverchianti, le paure legate alla malattia (di infettarsi, soffrire o perdere persone care) si sono facilmente trasformate in stati d’ansia, depressione, mancanza di sonno e incapacità di concentrazione.

Questo quadro ha portato alla revisione di alcune pratiche e a uno sguardo diverso verso gli assunti del modello del lavoro contemporaneo. Qualche azienda ha provato a prendere iniziative per contrastare la “Zoom fatigue”, per esempio, impedendo di fissare appuntamenti di lavoro almeno un giorno alla settimana. Big come LinkedIn o Google, hanno optato per offrire giorni di vacanze pagate in più a tutti i dipendenti. Ma  queste sono sembrate più iniziative che mettono delle pezze a un problema sempre più reale, senza però affrontare il tema in modo sistematico, né, al momento almeno, capaci di soluzioni efficaci.

Serve un cambio di cultura: occuparsi sì di temi come il carico di lavoro eccessivo, ma anche di offrire ambienti di lavoro più sani, con migliori opportunità di realizzazione e crescita personale, equilibro tra attività professionali e necessità private.

Un’esperienza traumatica collettiva

Prima della pandemia lo smart-working sembrava la magia necessaria per risolvere molti problemi di equilibrio tra vita personale e professionale. Se ne parlava come la soluzione a tantissimi mali, dal cambiamento climatico alle potenzialità per una vita personale e familiare più bilanciata. Per le donne, come una chiave per ridistribuire i carichi di cura e implementare l’occupazione. Poi è scoppiata la crisi sanitaria che in oltre 18 mesi ha messo in chiaro tutte le sue potenzialità, ma anche le sfide dell’home-working. Proprio a partire dalle donne.

Da subito colpite sproporzionatamente dalla pressione tra lavoro e cura, in numero maggiore sono rimaste senza un’occupazione, completamente o in parte. Secondo dati Oxfam International, nel mondo hanno perso oltre 64 milioni di posti di lavoro nel 2020. E dato che i numeri più alti si sono registrati tra i lavoratori che sono anche caregivers e genitori con figli in didattica a distanza, non è difficile capirne le ragioni principali. Pagate meno, meno occupate, ma caricate comunque delle responsabilità di casa e famiglia, sono ancora una volta l’anello debole.

Ma non sono le sole a soffrire le dirette conseguenze psicologiche di questo anno e mezzo di pandemia. Secondo un recente studio Catalyst “la grande maggioranza dei rispondenti – il 92,3% – sta sperimentando un qualche tipo di burn-out. Il loro esaurimento è il risultato di stress legato al lavoro in generale, all’esperienza di lavoro durante il Covid in particolare, e/o a fattori di vita privata”. Insomma, burn-out da lavoro, da pandemia ed esaurimento personale.

Davanti a questo tipo di prospettive, non basteranno più piccole azioni isolate ma sarà necessario uno sforzo più grande e più incisivo. Il rischio è il diffondersi a livello mondiale dei drammatici tassi di suicidi del Nord Europa. O del Giappone, Paese emblematico che oltre a trovarsi a contrastare livelli di natalità in continuo calo, lo scorso anno ha conosciuto per la prima volta dopo 11 anni, un aumento del numero di persone che si sono tolte la vita: 2.153 nel solo mese di ottobre, contro i 2.087 morti per Covid di tutto il 2020. O ancora l’epidemia da oppioidi e psicofarmaci statunitense che ha conosciuto alti livelli di decessi come mai prima: 81mila le vittime da giugno 2019 a maggio 2020 a causa di abusi di sostanze su tutto il territorio nazionale e in un po’ diffuso tra tutte le fasce d’età.

Abbiamo vissuto un’esperienza traumatica collettiva. Collettivamente dobbiamo renderci conto che le modalità di lavoro “sempre attivi” non sono sostenibili. Il problema dei livelli di burn-out attuali e futuri è una questione che interessa tutta la società e i sistemi economici di oggi. Una pandemia forse meno evidente di quella causata dal Covid, ma altrettanto incisiva e che probabilmente sarà più lunga da gestire. Soprattutto contando che secondo alcuni potrebbe non essere ancora arrivata al suo apice.

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  • Alessandro Cerioli |

    A Gennaio ho lasciato la mia posizione in un’azienda tedesca a causa dei ritmi di lavoro della mia industria (l’automotrice) che sono degenerati al punto di dover lavorare 14 ore al giorno nei feriali e spesso anche nel weekend. Per quanto mi riguarda ho notato questo trend anche in era pre-covid e non solo per progetti tradizionalmente “difficili” come Formula 1 e Hypercars…ormai anche per progetti a basso livello tecnologico i clienti si aspettano che lavori come uno schiavo, continui lenti fino a urla e minacce di farti licenziare. Fino a cinque anni fa non era assolutamente così, ma oggi la spinta alla riduzione dei tempi e costi e la pretesa di ricevere lavori con la stessa qualità di prima sta facendo degenerare gli ambienti lavorativi.

  • gloria |

    il burn-out è un fenomeno molto più frequente di quello che si presume .E’ la punta di un iceberg.Un ambiente di lavoro sano, uno spirito collaborativo anzichè competitivo, una educazione alla igiene e salute mentale oltre che interventi burocratici atti a rendere il lavoro più agile e flessibile sono ingredienti fondamentali di cui si debba tenere in debito conto.l’essere umano non è una macchina, devono essere compreso a più livelli, individuale, sociale ed economico rispettando il ciclo vitale e le fasi di vita in cui si trova.Tenere conto di questo non solo conduce ad una maggiore sioddisfazione dell’essere umano ma si avranno benefici per l’intera società non solo a livello sociale bensì anche produttivo

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