“Aprile è il mese più crudele dell’anno”, ma giunge a consolarci l’abbraccio di Mads Nissen, vincitore del World Press Photo of the Year 2021: le parole di Thomas Stearnes Eliot ne La terra desolata (The Waste land) sono terribilmente attuali, per questo abbiamo tutti un disperato bisogno di caldi contatti per sostenerci.
L’immagine incoronata dal premio fotogiornalistico più universalmente noto a livello internazionale (raccontando una delle edizioni precedenti lo definii l’Oscar della fotografia) si chiama The First Embrace, un titolo che ci invita a riconoscere nell’abbraccio tra l’ottantacinquenne brasiliana Rosa Luzia Lunardi, ospite della casa di riposo “Viva Bem” (Buona Vita) di San Paolo, e l’infermiera Adriana Silva da Costa Souza l’origine, la sorgente inesauribile da cui fluiscono tutti gli altri, capace perciò, come un archetipo, di stabilire un ponte con la nostra realtà quotidiana, generando un dirompente effetto moltiplicatore.
Adriana abbraccia e sovrasta Rosa: l’anziana sembra una bambina che si perde tra le braccia della madre, appoggiandosi a quel corpo vasto e accogliente, portatore di un senso di protezione, in un gesto che contiene e custodisce. Giunta nella parte conclusiva della sua esistenza, Rosa è una vecchia (usiamola questa parola senza paura: nel suo significato oggettivo, neutro, umano) che – come dice l’adagio popolare – torna bambina, il ciclo dell’esistenza sembra riannodarsi su se stesso, ma in questo tempo perenne, ricorsivo e biologico, irrompe con brutalità il presente con l’assedio quotidiano della pandemia: la mascherina, la scenografia di plastica nera isolante alle spalle delle due donne, come sospese in uno spazio indeterminato e assoluto, sono lì a certificarlo; ma la stessa plastica, ora trasparente, avvolgendo gli arti di Adriana è segnata da guizzanti bordature gialle, diventa corrente di energia che rende sensibile l’effetto e l’intensità della relazione messa in circolo da quel gesto, trasmissione di umanità tra corpi vivi e palpitanti, emozionati e sopraffatti.
Quell’impalcatura di plastica che costituisce lo sfondo dell’immagine è una tenda degli abbracci (hug curtain), un’invenzione recente diffusasi in tutto il mondo per compensare il dramma della segregazione dei corpi imposta dal COVID-19, ancora più terribile per chi si trovi in una struttura ospedaliera o simil-ospedaliera, in un ambiente asettico, freddo, un non luogo a lungo andare alienante, nel suo costituire l’opposto di quel che chiamiamo casa.
Ecco perché la foto è anche una rappresentazione di quel che dovrebbe essere il compito assunto da coloro che si dedicano all’arte del medicare, parola nella quale affiora l’eco del prendersi cura, a partire dalla cura originaria per tutti noi, quella della madre che accudisce il proprio bambino: oggi noi parliamo infatti esclusivamente di sanità, emergenza sanitaria, di scienza e tecnologia applicate alla medicina e, sia chiaro, la scienza medica occidentale è una benedizione che ha salvato e sta salvando milioni e milioni di persone, ma non può rimuovere, come invece spesso accade, la stoffa umana dal tessuto della cura, riducendo il paziente a oggetto da riparare e rimettere in sesto, anziché persona da restituire (quando è possibile) alla vita e al circolo di affetti che la vita implica. E nel caso di Rosa, ricoverata da tempo a Viva Bem e senza nessuno che la visiti, Adriana, un’infermiera della struttura non una parente di Rosa, si prende carico dell’abbraccio: tutti meritano un abbraccio e, sospetto, in quel gesto lo scambio di energia e di sentimento non va in un’unica direzione, non è solo Rosa a esserne beneficata…
Una foto di reportage è il racconto di un pezzo di mondo, ritagliato dalla sensibilità, intelligenza, giudizi e pregiudizi del fotografo dietro la camera, quando è potente, attraverso gli avvenimenti e le persone che ci fa scoprire, invita a conoscere, a riflettere, forse a capire, ma intreccia anche tanti percorsi dentro di noi, dialoga non solo con gli occhi ma, facendosi strada attraverso quelle finestre dell’anima (parola di Leonardo), stimola tutti i nostri sensi e può far riaffiorare ricordi intimi, emozioni che non eravamo più usi a frequentare, che pure ci appartengono.
Il danese Mads Nissen (1979) dell’agenzia fotografica Panos Picture, rappresentato in Italia da Prospekt, è un fotografo di razza: questo è il secondo World Press Photo of the Year che si aggiudica in 7 anni, avendo vinto il medesimo riconoscimento nel 2015 con la foto di Jon e Alex, una coppia di giovani gay russi. Già queste due immagini fanno intuire come l’empatia sia alla base del suo fare fotografia, a partire dal suo primo importante lavoro, quando, lasciando la Danimarca, andò a Shangai: era il 2007 e il suo obiettivo era raccontare le conseguenze umane e sociali della prodigiosa crescita economica della Cina, quindi guardare la faccia nascosta dietro lo splendore della strepitosa performance del gigante asiatico e portare alla luce le storie delle persone che quella trasformazione impetuosa e rapidissima interpretavano e subivano.
The First Embrace per il suo autore è una storia di “speranza e amore”, come racconta nel brevissimo video nel quale spiega come sia nata l’immagine e ci dice anche come, secondo lui, attraverso la fotografia, in quel breve istante del click, possiamo sentire come potrebbe essere se fossimo noi gli altri che abbiamo di fronte: si abolisce così per un attimo quel diaframma che divide chi sta di fronte all’obiettivo da chi è dietro e, nell’immagine, quell’istante assume una durata potenzialmente illimitata. Misteri della fotografia: un’arte e uno strumento che non sono affatto trasparenti come potrebbero sembrare.
Lo scarto temporale proprio di ogni manifestazione simile al WPP, che premia ovviamente immagini dell’anno precedente, mi aveva fatto avvertire nel canto di protesta dal Sudan del giovane Mohamed, raffigurato da Yasuyoshi Chiba nella foto vincitrice del 2020, il grido della realtà di prima, la sua irruzione nel nostro mondo sospeso nel lockdown, assediato dal virus e dalla paura. Oggi, questa foto scattata il 5 agosto 2020 in Brasile ci dice che non esiste più un al di fuori: il COVID-19 ha globalizzato il pianeta con una repentinità che nessuna economia, invenzione o tecnologia possono nemmeno lontanamente immaginare e in questo nuovo scenario dobbiamo imparare, almeno per ora, a stare e a vivere.
Credo che nessuno sia sorpreso dal fatto che la giuria abbia scelto una fotografia inerente la pandemia, ma questa potente immagine non ci parla solo del virus, compie un passo ulteriore, mostrando quel che né il virus, né null’altro possono toglierci quando custodiamo e condividiamo il calore della nostra umanità. Come ha detto il fotografo e membro della giuria Kevin WY Lee: “se guardate l’immagine abbastanza a lungo, vedrete spuntare delle ali: simboli del volo della speranza”.