Romanzi che denunciano: Lafanu Brown e le guerre di tutte le donne del mondo

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“Lafanu Brown non era ancora apparsa nella mia vita, ma il fato che mi avrebbe portato da lei si era messo già in moto”. A parlare è una delle due protagoniste di La linea del colore: Il gran tour di Lafanu Brown”, romanzo di Igiaba Scego, edito da Bompiani nel 2020.

Leila è una curatrice d’arte, un’italiana di oggi, di origini somale. Sarà lei a incrociare la storia eterna della pittrice afroamericana che troverà a Roma il riscatto e la libertà. La narrazione si mantiene da subito in bilico tra due piani, perfettamente bilanciati. Lafanu ripercorre il suo tempo mentre si racconta all’uomo che l’ha chiesta in moglie. Ulisse è un anarchico, un po’ siciliano un po’ pugliese, e l’ha salvata dal linciaggio che la notizia della morte di cinquecento soldati italiani a Dògali, in Eritrea, aveva scatenato.

Siamo nel 1887 e Roma sembra incendiarsi. Attorno alla donna una folla inferocita, la aggredisce, chiede alla sua carne di pagare il conto di mire colonialistiche che nemmeno le appartengono. Ed è a questo punto che scopriamo l’abisso: quella di Lafanu è una carne già ferocemente offesa. Da ragazzina aveva conosciuto l’atrocità dello stupro e l’umiliazione della discriminazione, una violenza che l’aveva ridotta a brandelli, che l’aveva privata dei colori, in una notte in cui l’orrore era stato spacciato al mondo per incidente. Nata da una tribù indiana, la pittrice sconta il colore di una pelle come ebano, sperimenta l’abuso; davanti ai suoi occhi finisce per schiudersi l’umanità peggiore.

La vigliaccheria dietro la ferocia, l’ipocrisia dietro la generosità: il libro di Igiaba Scego pare uno squarcio. I personaggi si aprono, la scrittrice porta il lettore fino in fondo, gli permette di guardare dentro, lo fa passare oltre l’apparenza. E lo conduce attraverso la sofferenza fino alla scelta ultima e definitiva. La determinazione è salvezza ed è quella che porterà Lafanu su un piroscafo alla volta dell’Europa, dove la pittura diventerà lavoro, la passione indipendenza e infine libertà.

Ed è a Roma che Lafanu ritrova se stessa, si riappropria di quel corpo violato che è il “suo” corpo e che ritorna integro. “Ma come era possibile? Lei non sentiva i sapori, non li sentiva più da quella notte del 1859. Guardò nella direzione della voce. Era perplessa. ‘L’ha cucinata lei?’ chiese allora sospettosa, come se stesse parlando con una specie di strega. ‘Le piace, vero?’ disse la donna che nel frattempo si era avvicinata tutta scarmigliata alla tavolata dei nuovi arrivati. ‘La cipolla, cara figliola, fa bene al cuore! E in questa zuppa ne ho messa abbastanza da resuscitare i morti’, le disse facendole l’occhiolino. ‘Mi piace da morire. Me ne darebbe un’altra scodella?’ Lafanu sentì finalmente il suo corpo libero dai lacci del passato. Avvertiva tutti i sapori in bocca: alloro, lenticchie, fave, fagioli… soprattutto quella cipolla che le aveva risvegliato i sensi. Quando arrivò la seconda scodella la divorò. L’Italia stava entrando dentro la sua pelle. E le era già immensamente grata”.

Il romanzo di Igiaba Scego ha il pregio dell’onestà. C’è dentro il nostro mondo, tutto intero, luci e ombre. E lo si riconosce nei resoconti dei giornali del tempo che rivolgono a Lafanu quello che noi oggi chiamiamo hate speech: “Aristocratici che avevano possedimenti ad Antigua o altrove che pretendevano che quella negra fosse zittita immediatamente, addirittura dalla Corona, per l’onore dell’Impero Britannico, mentre altri cittadini che si autodefinivano amici dell’America suggerivano: ‘Se la signorina Brown ha tanta smania di viaggiare sia ricondotta in ceppi nella terra delle scimmie dove è stata concepita’”.

E allora, nel libro c’è anche – o c’è soprattutto – il presente. C’è nella storia di Leila che è calata fino in fondo dentro a un mondo che non conosce confini che non siano frontiere. Un po’ straniera in patria, ma anche diversa dai suoi parenti somali, la giovane curatrice d’arte vive per il lettore l’angoscia e l’orrore dei viaggi della salvezza. E lo fa per il tramite della cugina più giovane. Binti – che non ha mai conosciuto, se non per telefono – incarna d’un tratto la sua angoscia più grande e il senso di colpa, l’impotenza.

Accade quando la ragazza si decide a lasciare l’Africa e si avventura, prova a sopravvivere, attraversando territori ostili, poi la Libia, senza però mai arrivare al mare. Rispedita indietro, Binti torna che è ormai un’altra; non è più la giovane piena d’entusiasmo ma una donna marchiata da un’offesa insostenibile che la condurrà al limite della follia: “Il cugino Omar Geele l’ha chiusa in una stanza al buio. Sai, non è più sana di mente. È come impazzita. Si toglie i vestiti. Urla oscenità. Ha detto cose irripetibili contro Dio. Ce l’hanno restituita matta, questi maledetti trafficanti. Non abbiamo indagato a fondo, ma temiamo di sapere perché. E giustamente il cugino Omar non vuol far sapere la nostra vergogna in giro”.

La violenza è la vergogna, in queste storie, una congiunzione non basta, quando la vittima va reclusa, soffocata, nascosta, ché quel mondo non debba vedere mai la colpa d’un innocente.

Gli stupri subiti dalle migranti che sfidano la vita e la morte per arrivare in Europa,  accatastate corpi su corpi nel ventre d’un barcone, sono un pugno allo stomaco. E quel colpo sordo giunge nel bel mezzo di un libro che dapprima rassicura il lettore, si mostra con i colori antichi di un passato annunciato come tanto lontano da non poter fare del male, ma che in pochi capitoli lo tradisce e lo catapulta in un presente osceno e dolente.

Rimane l’amarezza della verità. La nostra storia è in fondo la storia dei nostri passaporti. E il mondo è diviso iniquamente. Ci sono quelli che ne hanno in tasca uno forte che garantisce loro il viaggio come diritto e la mobilità come opportunità. “Per gli altri il viaggio era solo morte, sciagura, frontiere che diventavano muri. Viviamo in apartheid, questo è apartheid”, dall’altra parte dunque  ci sono quegli altri. Quelli che in tasca hanno un passaporto debole e sono condannati alla clandestinità o alla morte. La linea di confine è infuocata, acqua bollente in cui inabissarsi è questione di un momento.

La scrittrice tiene incollato il lettore per oltre trecentottanta pagine, con ritratti magnifici di donne eterne. La storia di Lafanu è narrazione pura, ma richiama alla memoria la vita di Edmonia Lewis e quella di Sarah Parker Remond, artista e scultrice la prima, ostetrica e attivista la seconda. In quest’opera paiono fondersi come impercettibili tracce dei libri precedenti di Igiaba Scego, da La mia casa è dove sono, ad Adua, fino allo scatto quasi documentaristico di “Roma negata, e il risultato è davvero un viaggio sorprendente. Ci ha abituati, del resto, la scrittrice a incursioni profondissime come in Lessico della crisi e del possibile, uscito per Seb27, appena due anni fa. Un volume denso, scritto a più mani, sulla centralità della parola, dove Scego ha curato lemmi problematici e cavernosi come afrofuturismo e diaspora.

Quella di Lafanu, quella di Leila o di Binti sono le battaglie di più di metà della nostra umanità. Oltre trenta sono le storie raccolte nell’ultimo libro di Emanuela Zuccalà, uscito per Infinito edizioni a febbraio di quest’anno. Si intitola Le guerre delle donne ed è una fotografia scattata in lungo e in largo dalla giornalista che è autrice tra l’altro di “Uncut”, reportage necessario e durissimo sulle mutilazioni genitali femminili (uncutproject.org).

Il libro si apre con le nozze di Hope, una donna come Lafanu che riesce a lasciarsi alle spalle la vita di strada, la prigionia, per ricominciare a sognare. Un abito da sposa, comprato in un grande magazzino, è quanto basta per cancellare la schiavitù e tornare a Benin City, quella patria da cui era fuggita e a cui fa rientro, stavolta, con accanto un compagno e una figlia.

Il resoconto che Emanuela Zuccalà consegna in queste duecentocinquanta pagine è un viaggio negli abissi del patriarcato che viola il corpo delle donne, ripetutamente, impunito. Quella delle bambine è l’immagine che più di ogni altra rimane attaccata addosso al lettore, come un odore persistente e acuto, di violenza gratuita e insensata, come lo stridore di catene che condannano senza scampo e senza tempo. La tortura sperimentata in tenera età farà di loro delle donne traumatizzate, deprivate del piacere e della dignità. Ma la storia è ricca di facce che nel libro si incrociano: sono nomi di ginecologhe, avvocate, femministe, attiviste, politiche, che ricuciono strappi e lottano perché le sorelle più fragili e più esposte smettano un giorno di subire.

La violenza sulle donne, a gradi differenti, è presente in ogni cultura e in ogni continente. Ha radici profondissime nella storia, nella tradizione e nella religione, e queste radici nascono nelle società patriarcali e prosperano nella diseguaglianza tra uomini e donne, dove la donna spesso diventa merce e proprietà dell’uomo”, così Emma Bonino che di quest’opera cura la prefazione, inquadra una realtà che è la stessa che oggi ci costringe a contare un femminicidio ogni due giorni.

Il libro è un frutto della pandemia e ce lo dice la stessa scrittrice. Doveva essere il seguito di Donne che vorresti conoscere, ma ha preso vita propria. Si sono impadronite di quelle pagine protagoniste di ogni parte del mondo, dolenti e però portatrici di speranza, combattenti, donne che resistono perché domani non sia come ieri, né come oggi.

Dal 2013, calcola l’Unicef, oltre mille minorenni, maschi e femmine, sono stati catturati da Boko Haram”. Scorrono tra queste righe, come rivoli di sangue, storie di esistenze spezzate, di bambini massacrati, di bambine deturpate, scippate per sempre dell’infanzia, quando non della vita stessa. Le esistenze che affollano le pagine di questo libro-inchiesta si atteggiano man mano a una cosa che somiglia sempre più a un gioco di scatole cinesi. Un capitolo ne contiene molte, una storia dentro l’altra. E, così, accanto alle donne che salvano, ci sono anche quelle che condannano. Nel volume trova spazio, perfino, il racconto disturbante di quante aderiscono ad esempio alle milizie jihadiste. Lo fanno per lo più per avere vantaggi materiali, come la semplice possibilità di studiare.

Tra le tante voci raccolte da Emanuela Zuccalà anche quelle delle donne italiane. La mamma di Attilio Manca, Angela, custodisce il dolore e lascia trasparire la rabbia nel racconto della morte del figlio. Quella del giovane e promettente urologo, da subito archiviato come suicida, è una vicenda in cui tutto rimane sbiadito. Qualche tratto in più e sarebbero stati nitidi i contorni di una mafia sanguinaria che Angela è certa abbia voluto l’omicidio di Attilio.

E poi, ecco riaffiorare una ferita dal nostro recente passato, la strage del Rapido 904 che da Napoli portava a Milano. Nelle parole come piaghe, Rosaria rievoca quel Natale del 1984, in cui saltarono per aria dentro a un treno, tra Firenze e Bologna, circa trecento persone e si contarono 15 morti e 267 feriti. Quella che fu definita la prima strage di mafia che anticipava gli attentati degli anni Novanta, si fa scena vibrante. “Ancora oggi dopo oltre trent’anni, a lei e ad altri superstiti, capita che le schegge di vetro fuoriescano dal viso e dal corpo: l’esplosione è stata talmente potente che è come se le minuscole lame dei finestrini in pezzi le avessero mitragliate. Un ricordo scolpito nella carne”.

Per le vittime il dopo è per sempre, non si guarisce mai.

Gli ultimi incontri che il libro ci offre si legano al filo di una realtà di orrore che dovremmo trovare il modo di mettere al bando. Di nuovo lamette, di nuovo il taglio, ancora e sempre mutilazioni genitali femminili. Si tratta delle famigerate scuole nella foresta. Zoe e Sande sono nomi che evocano più di una setta, spazi di reclusione in cui l’appartenenza è senza via d’uscita. A  parlare è Lucy. Il territorio di caccia qui è la Liberia, le vittime ineluttabilmente le donne. “Collegi di umiliazione, di tormento e di frustrazione, di annullamento dell’essere umano”, tenuti in piedi da un sistema corrotto di politica e favori.

E poi c’è Elghalia. “Si sta preparando al servizio fotografico, per il mio giornale, aggiustandosi la melfah, l’abito tradizionale delle donne del Sahara: una stoffa dai colori vivaci che scende dal capo fino ai piedi per proteggere dalla sabbia e dal vento. Intravedo una ciocca insolitamente bionda, e chiedo. Lei non s’offende e scosta appena il velo scoprendo ciuffi radi come bruciati. ‘Non ho più capelli’ e la sua espressione paradossalmente distesa sembra volermi proteggere da qualcosa d’intollerabile. ‘Mi hanno torturata legandomi a testa in giù su un tavolaccio e versandomi un liquido sulla testa. Non so cosa fosse: odorava d’alcol, benzina, zolfo, acqua salata, urina. Sì, anche urina. Mi hanno permesso di lavarmi solo tre mesi e mezzo dopo, e in quel momento i miei capelli sono caduti a ciocche’. Sorride ancora: ‘Sono pronta per le foto'”.

Queste vite ridotte a numeri, bisognerà continuare a pensarle come esistenze, sembra il messaggio di Zuccalà: “Secondo l’associazione saharawi Afapredesa, che riunisce i familiari della persone scomparse, dal 1975 a oggi sono state 4.500 le vittime di sparizioni forzate e incarcerazioni senza processo in Sahara Occidentale. Di cinquecento non si sa tuttora se siano vive o morte: una di loro è la nonna di Elghalia”.

Dalla Turchia all’Amazzonia, l’Africa come l’America o l’Europa è campo di battaglia, se solo lo si guarda contando gli orrori che si accaniscono, giorno dopo giorno, senza tregua, su tutte le donne del mondo. Il libro è più di una testimonianza, si disvela allora vero e proprio atto di accusa.

Ma se, parafrasando il Che, bisognerebbe essere sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa, contro chiunque, in qualunque parte del mondo, per le donne la sorellanza è militanza. E può davvero partire da lì la rivoluzione che ci serve.

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Titolo: “La linea del colore”
Autrice Igiaba Scego
Editore: Bompiani
Anno: 2020
Prezzo:  19 euro

Titolo: “Le guerre delle donne”
Autrice: Emanuela Zuccalà
Editore: Infinito edizioni
Anno: 2021
Prezzo: 15 euro euro

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