Giovani e lavoro: perché dobbiamo ripartire dai ragazzi italiani

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Il tema dei giovani e dell’importanza del loro capitale umano deve essere centrale nelle agende politiche ed economiche del nostro Paese, altrimenti come potremmo garantire la sostenibilità di una società non tenendo conto di una generazione che è stata drammaticamente colpita dalla pandemia?

I giovani in Italia partivano già da una situazione di difficoltà, soprattutto per quanto riguarda il loro ingresso nel mondo del lavoro e la crisi legata al Covid li ha colpiti ulteriormente limitando le poche possibilità di inserimento in ambienti di lavoro.

Le ragioni della “questione giovanile” sono profonde e hanno le loro radici nel nostro sistema educativo, sociale ed economico. Il sistema educativo italiano è tra i più lunghi in Europa e non riesce a trattenere e portare i giovani fino alla fine dell’istruzione universitaria, anzi il 13% dei ragazzi lascia la scuola ancor prima del diploma. I ragazzi europei finiscono prima il ciclo educativo ed entrano più velocemente nel mondo del lavoro. I ragazzi italiani che arrivano alla laurea sono il 35% rispetto al 40% della media europea.

Le scuole e le famiglie fanno fatica ad orientare i giovani a una scelta più consapevole dei percorsi di studio: oggi la maggior parte dei ragazzi sceglie l’indirizzo delle scuole superiori o dell’università in base alle proprie passioni senza tener conto delle esigenze del mercato del lavoro. Gli stessi percorsi universitari sono disallineati dalle richieste delle aziende e i programmi di studio restano molto teorici e poco applicabili rispetto ai posti di lavoro vacanti offerte dalle imprese, tranne rari casi come le facoltà STEM o gli ITS.

Questo disallineamento viene definito “skill mismatch” e non è solo italiano. Ad esempio negli USA ci sono 7,3 milioni di posti di lavoro vacanti nell’IT, nella salute e nei servizi professionali e non ci sono ragazzi con le competenze giuste. I college americani non hanno risposto a questa necessità in parte perché i professori universitari non hanno mai lavorato nel settore privato e non riconoscono che le università debbano preparare i ragazzi per il mondo del lavoro.

La situazione italiana

In Italia la situazione è precipitata con il Covid: il tasso di disoccupazione degli under 25 è passato dal 27% dell’agosto 2019 al 30% del dicembre 2020. Il blocco dei licenziamenti e l’impossibilità di assumere giovani se un’azienda ha adottato misure come la cassa integrazione hanno portato le imprese a congelare tutte le posizioni che avevano aperto nel 2019 mettendo a dura prova l’ingresso dei ragazzi nel mondo del lavoro. Di questa difficoltà prova ne è il crollo dei tirocininei primi sei mesi del 2020 è stato del 48%, considerando la media nazionale. A fronte degli oltre 185mila tirocini che erano stati attivati nel primo semestre 2019, a causa del Covid questo numero nel 2020 si è fermato a poco più di 96mila, creando appunto una riduzione di quasi la metà.

I NEET, giovani che non studiano e non lavorano, erano nel 201 circa 2 milioni, tutti under 30, e nel terzo trimestre del 2020 sono già aumentati di più di 100 mila unità. Se si considerano poi anche gli under 35, il dato supera i 3 milioni di unità. I NEET sono i giovani che hanno perso le speranze di trovare un percorso formativo o lavorativo adatto, sono la categoria più preoccupante ma se non si interviene velocemente il rischio che si allarghi sempre di più è molto vicino.

Per la nostra società, che ha un obiettivo di crescita non solo economica ma di tensione verso un bene comune, dovremmo chiederci, prima di qualunque decisione: “Quale Paese lasceremo ai nostri figli?”.

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