Violenza contro le donne, dopo il Covid la giustizia deve aprire la strada verso la rinascita

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Quando avremo sconfitto la pandemia con i vaccini, le mascherine ancora indossate (naso compreso) ed il rispetto per la salute come bene collettivo non ci dovremo dimenticare delle sofferenze che le donne vittime di violenza ad opera degli uomini hanno vissuto durante il primo duro lockdown. Una doppia violenza rappresentata dalla sopraffazione quotidiana e dalla impossibilità di chiedere aiuto. Non a caso nei mesi di marzo ed aprile 2020 le denunce per maltrattamenti sono diminuite mediamente del 50%, a Milano addirittura del 70%. Questa piaga sociale sembra sopravvivere anche alla virosi, basta vedere il numero di donne uccise nel solo mese di gennaio 2021, e ciò  a fronte di una costante decrescita degli omicidi in generale, sempre per l’ossessione della concezione proprietaria sviluppata dall’uomo nella relazione. Non sei libera di lasciarmi altrimenti ti uccido.

Durante la pandemia la giustizia ha saputo essere dolce con le vittime di violenza intrafamiliare perché la necessità del distanziamento ha consentito di attivare dei sistemi di ascolto molto protettivi e tutelanti. Se infatti il filtro dello schermo e del collegamento via web sono apparsi per noi socialmente destrutturanti, per le donne che dovevano raccontare storie devastanti di crimini di relazione hanno costituito uno strumento di tutela fisica e psicologica e certamente di compensazione emotiva. La possibilità di assumere il racconto giudiziario a distanza, nella fase delle indagini o durante il processo, dovrà dunque essere mantenuto anche quando l’emergenza sanitaria terminerà. Peraltro la legge europea ed italiana già lo consente qualora venga accertata in seno alla vittima una situazione di particolare vulnerabilità, condizione questa  che ricorre  quasi sempre in situazioni di maltrattamento o di violenza sessuale consumate all’interno della relazione di intimità.

Dopo la pandemia vivremo certamente un fase di rinascita, un nuovo miracolo italiano perché la virosi è stata una guerra invisibile che ha provocato oltre 90 mila morti e sofferenze non declinabili e perché nel Paese esiste una voglia ed una energia di ripartire, soprattutto nei giovani, che deve essere alimentata ed organizzata. La giustizia non sarà più quella delle carte, dei faldoni, della concentrazione e dell’affollamento caotico ma dovrà articolarsi su processi telematici e su criteri di effettività della decisione sempre in un’ottica primaria di rispetto dei diritti delle parti. Degli imputati ma anche delle vittime. Dovrà anche essere una giustizia della riparazione dell’offesa e del ripristino immediato dei diritti, soprattutto quelli più fragili, calpestati dalle condotte devianti.

Dovremo però riattivare una cultura del rispetto delle diversità, prima fra tutte quelle legate al genere, che ricordi e capitalizzi la sofferenza diffusa di chi ha incontrato comunque il virus e che proponga condivisione per l’angoscia e la paura vissuta in un’ottica di trasformazione della società in direttrici di coesione e partecipazione. Una rinascita infatti non può che basarsi su valori che si antepongono alle risorse necessarie per la ricostruzione del tessuto economico e per l’eliminazione delle profonde diseguaglianze esistenti. Soltanto in quest’ ottica valoriale potremo infatti vivere un rinascimento della persona e delle relazioni. La grande paura, fondata ancora sull’attualità dei dati e delle storie, è che le donne possano essere ancora escluse dal complessivo processo di ricostruzione e che, alla fine, il maledetto virus possa presentarsi  ancora una volta come una concausa della violenza che quotidianamente vivono nella relazioni, sui luoghi di lavoro, nella comunicazione aggressiva e sessista ancora troppo diffusa. Come purtroppo la storia di un diritto maschilista ci ha insegnato.