Smart working, chi potrebbe lavorare da remoto e chi no

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Prof, sembra che lei sia proprio favorevole al lavoro a distanza …

Sì, sostengo con convinzione le politiche che agevolano il lavoro da remoto[1] perché penso che sviluppando questo potenziale si aprano ampi spazi di miglioramento nell’organizzazione della produzione e nella divisione del lavoro, ma non intendo dire, con questo, che sia una cosa facile da realizzare.

L’effetto auspicato di queste politiche dovrebbe essere quello di incrementare nel lungo periodo la capacità delle famiglie, delle imprese, e del sistema economico di riconoscere, sviluppare e attrarre talenti, perché il capitale umano è già oggi la risorsa più importante dell’economia moderna (Becker 2002), e lo sarà sempre di più in avvenire.

Secondo il Rapporto 2020 dell’Istat gli occupati in smart working sono attualmente più di 4 milioni, ma questo numero potrebbe raddoppiare nel prossimo futuro. Stimando la “fattibilità da remoto” delle varie professioni e il numero di occupati che potrebbero svolgere il loro lavoro con questa modalità, l’Istat calcola che i lavoratori coinvolti siano potenzialmente 8,2 milioni (pari al 36 % degli occupati), anche se di fatto solo il 12% di loro ha già concretamente sperimentato questa possibilità.

La divergenza tra la situazione reale e quella potenziale è notevole: anche escludendo le professioni per le quali il lavoro in presenza è preferibile (come ad esempio gli insegnanti di scuola primaria e secondaria), restano comunque circa 7 milioni di occupati che potrebbero svolgere la loro attività da remoto. I settori con il maggior numero di professioni fattibili con questa modalità sono quelli dell’informazione e comunicazione, delle attività finanziarie e assicurative e dei servizi alle imprese (rispettivamente con 90%, 83% e 60% di professioni che possono essere svolte in smart working). Le categorie di persone che potrebbero lavorare in modalità remota, secondo la stima dell’Istat, sono più donne che uomini (38% contro 33%), più anziani che giovani (38% ultracinquantenni contro 30% giovani), residenti più al Centro-Nord che al Sud (37% contro 29%), e più laureati che diplomati (64% contro 37%).

Dal punto di vista delle imprese è da sottolineare il fatto che la praticabilità del lavoro a distanza richiede che i sistemi informatici siano accessibili anche fuori dall’azienda, che l’organizzazione del lavoro sia strutturata per obiettivi, e che la retribuzione sia collegata alla valutazione della prestazione. Ciò comporta un consistente lavoro di analisi e sperimentazione, una importante ristrutturazione delle attività e ridefinizione delle mansioni, una revisione dei sistemi di controllo e di incentivazione, e in generale implica un cambiamento sostanziale sia della cultura aziendale sia dei comportamenti dei dipendenti.

Dal punto di vista delle persone, un considerevole ostacolo alla diffusione del lavoro a distanza è legato al fatto che non tutti gli individui possiedono le competenze digitali necessarie per svolgerlo: in Italia infatti una persona su quattro non ha alcuna esperienza nell’uso del computer, e questa quota si abbassa solo di poco (da 24% a 17%) nelle classi centrali di età (35-44 anni). Inoltre, l’eterogeneità degli individui e la varietà delle situazioni complica notevolmente la valutazione dei pro e dei contro del lavoro a distanza: le prestazioni di questo tipo richiedono infatti una sostanziale rimodulazione della distribuzione del tempo tra lavoro e non lavoro, e una previdente definizione dello spazio in cui confinare l’attività lavorativa (a distanza può voler dire ovunque: in casa, ma anche in convento o all’estero; e allora come si delimita il campo di scelta? Quanto si dilatano le frontiere della cooperazione e della competizione?).

La valutazione si complica ulteriormente volendo tener conto anche del tipo di famiglia[2]: per un/una single il luogo del lavoro a distanza può essere ovunque e il tempo è quasi del tutto incondizionato, ma per un genitore single o per una coppia dove entrambi lavorano, il campo di scelta diventa più ristretto; cosa cambia nella divisione del lavoro e degli spazi se uno o entrambi i coniugi lavorano da remoto invece che in presenza?

Ma è quando il lavoro a distanza viene analizzato dal punto di vista della società che la questione diventa da un lato imprescindibile e dall’altro complicata in modo esponenziale: stiamo vivendo infatti un momento di cambiamento epocale in cui la compresenza di fenomeni come la rivoluzione demografica e la questione ambientale, la tecnologia e la globalizzazione, le megalopoli e la pandemia evidenziano tutti i limiti del modello di sviluppo attuale. E dunque anche il lavoro a distanza non può essere solo una necessità indotta dalla pandemia e messa in atto senza progettazione né ricerca, ma deve essere una leva, uno sprone, un incentivo per immaginare spazi di miglioramento nell’organizzazione della produzione (cosa produrre) e nella divisione sociale del lavoro (come produrre).

Prof, ma per noi giovani le attività in presenza sono importanti per la socializzazione …

Proprio perché la socializzazione è importante per tutti non può essere casuale o residuale, confinata nell’ambito di incontri occasionali davanti alla macchina per il caffè, ma deve essere studiata, progettata e organizzata a seconda degli obiettivi di volta in volta perseguiti.

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[1] Si intende qui qualsiasi tipo di attività lavorativa non svolta in presenza.

[2] Single, single con prole, in coppia, in coppia con prole.