La casa, il luogo degli opposti: quattro romanzi sull’ambiguità del “nido”

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Il mondo, al di qua e al di là di un cancello. Rosso vermiglio, maestoso, inespugnabile. Quello apre la scena e segna lo spazio. La prima a varcarlo è Francesca. Sotto un sole accecante, scende dall’auto. A passo incerto, disegna inconsapevole attorno a sé quello che si annuncia come il suo cerchio perfetto. Ha negli occhi il bagliore della promessa: una nuova vita, una nuova casa, in una nuova città e, magari, la possibilità di ricucire lo strappo che le due gravidanze le erano costate. Vuole ricominciare a disegnare, per quel libro che non è ancora riuscita a pubblicare.

Si intitola “Questo giorno che incombe” ed è l’ultimo romanzo di Antonella Lattanzi. È in libreria dal 14 gennaio, per HarperCollins, ed è già nella prima cinquina delle candidature al Premio Strega. Sin dall’incipit il ritmo è chiaro. Ha una capacità irrefrenabile di scorrere, pagina per pagina, con le rapide di un thriller accattivante e ricco di suggestioni.

Quello della protagonista è lo sguardo sulla storia. Sarà principalmente attraverso i suoi sensi, anche se raccontati in terza persona, che il lettore procederà in questo viaggio. Con il trasferimento, la simbologia della trasformazione (e del decadimento) è l’intuizione delle prime battute. La loro vecchia vita, Francesca e il marito Massimo, l’hanno raccolta in alcuni scatoloni e, depurata del superfluo, l’hanno rinchiusa nel bagagliaio della Scénic. Adesso, sono pronti a tirarla fuori. Con l’entusiasmo e la paura di chi sta per rimettere ordine nel proprio presente e sa bene che il resto è tutto da costruire.

L’appartamento al quinto piano è il futuro, nel quale hanno investito ogni risparmio. Il condominio sembra accoglierli a braccia aperte. Un luogo senza tende, dove la vita di ciascuno sembra senza ombre e tutto appare perfetto, fin troppo. I personaggi di questo libro si fissano nella mente quasi al primo sguardo, la famiglia come concetto che li contiene tutti e li declina variamente. “Qui saremo al sicuro“, le aspettative sono altissime. Massimo, venendo via da Milano, ha a Roma finalmente una cattedra all’Università; le bambine hanno gli occhi pieni di quel giardino meraviglioso che promette giornate interminabili di giochi e di sole. Francesca è giovane, è bella, e assapora la novità, dapprima come inebriata. Le settimane passano, però, lentamente.

E la casa assume, come i suoi abitanti, quasi una vita propria. Incombe su Francesca, sempre più sola e in balìa dei suoi doveri di madre. Le parla, l’assilla, la spaventa e a tratti la consola. Il suo lavoro stenta, come non avrebbe voluto, non riparte. Non decolla la nuova vita che avevano sognato. E lei se ne accorge, prima degli altri. Una consapevolezza che vive come in una nicchia le svela una solitudine nuova.

I capitoli sono brevi, essenziali. Rivelano da subito tutto e il suo rovescio, il dinamismo e l’immobilità, lo slancio e la frustrazione. Come abiti scelti su un catalogo che, una volta indossati, aderiscono male. Così l’idea che riempiva l’attesa, nelle ore di viaggio che precedevano l’arrivo al Giardino di Roma, cede il passo alle sbavature di una realtà imperfetta che tradisce. Accade in poco tempo. E poi succede anche tutto il resto. I contorni sono quelli della cronaca nera, di un episodio che Bari ricorda ancora e che è rimasto impresso nella memoria di bambina dell’autrice. Quei fatti ritornano oggi alla coscienza di lei e in quella dei suoi lettori.

Il romanzo ha la forza di raccontare la vita, con i suoi momenti di buio e con gli immancabili e improvvisi sprazzi di luce. C’è forte in queste pagine il dilemma antico della maternità che schiaccia e uccide la donna di cui si impossessa. C’è la distanza che si insinua nella coppia e la separa, ci sono i sensi quando pulsano e fanno paura. C’è l’orrore.

Una storia intima ma insieme collettiva che si nutre delle esistenze che contiene. Un palazzo che respira, pareti che ascoltano e trasudano. Immagini piene di contenuti, ora appena suggeriti, altre volte disegnati fino ai dettagli più insignificanti. Il risultato è una scrittura che cattura. Una dimensione surreale che distorce il quotidiano, lo deforma, e ingoia la protagonista. Attraverso di lei, poi, conquistare il lettore è questione di un momento.

È sempre una scrittrice la donna del più noto romanzo di Magda Szabò, “La porta”. Pubblicata in Italia da Einaudi nel 2014 con la traduzione di Bruno Ventavoli, l’opera può ritornare in mente per associazione, seppur nelle differenze e nell’indubbia unicità di una delle più grandi autrici ungheresi del panorama contemporaneo. Proprio come nel lavoro di Antonella Lattanzi, riconosciamo la centralità del femminile, qui raccontato con autenticità e senza filtri dall’io narrante.

Sullo sfondo c’è sempre la casa. Come filo che srotola un gomitolo e ci conduce dalla dimensione soffusa della letteratura a quella più nitida del vissuto. Ieri come oggi, in tempo di guerra, in pace o in pandemia, quello è il luogo dell’isolamento, degli opposti, della vita e della morte. Le quattro mura che contengono l’esistenza di quanti vi abitano. Mura che creano unione, intimità, legami e insieme separatezza, che isolano, mantengono distanze: “La serratura è bloccata, la porta non si muove, come se fosse saldata al telaio d’acciaio. Grido, invoco aiuto, ma nessuno degli inquilini che abitano sui tre piani della casa mi ascolta, non possono farlo perché – me ne rendo conto – boccheggio a vuoto come un pesce, e quando capisco che non solo non riesco ad aprire il portone ai soccorritori, ma sono anche diventata muta, il terrore del sogno raggiunge il culmine. A questo punto vengo risvegliata dalle mie stesse urla”.

Il romanzo, uscito in Ungheria nel lontano 1987 e premiato in Francia con il Prix Femina Étranger nel 2003, è percorso da un’impercettibile tensione elettrica che dà equilibrio all’impianto narrativo fino alla sua conclusione. Dietro a una porta chiusa, l’animo della protagonista è impegnato in un confronto serratissimo con un’altra figura prismatica e di grandissimo carisma. Si chiama Emerenc ed è più di un aiuto domestico.

Ne viene fuori un’incursione sfaccettata e densa nei rapporti, quando diventano famiglia, declinati come grani di un rosario: “Una sola volta nella mia vita, nella realtà e non nell’anemia cerebrale del sonno, una porta si spalancò davanti a me, la porta di una persona che voleva difendere a ogni costo la propria solitudine e la propria misera impotenza, che non avrebbe mai aperto nemmeno se le fosse crollato addosso il tetto in fiamme. Solo io avevo il potere di vincere quella serratura: la donna che girò la chiave aveva più fede in me che in Dio, e io stessa, in quell’istante fatale, credetti di essere saggia, riflessiva, buona, razionale, come Dio. Ci sbagliammo entrambe, lei che si fidò di me, io che confidai troppo in me stessa. Ma ormai poco importa, perché ciò che è accaduto non si può rimediare”.

Lo stile è elegante, è sobrio, di un’unicità che colpisce. Quella di Szabò è un’opera a suo modo profondamente introspettiva. Una narrazione che scopre l’io attraverso gli altri e finisce per scoperchiare le pagine più crude della Storia del novecento.

“La casa delle madri” è l’opera prima di Daniele Petruccioli che ha sempre scritto di teatro e saggistica. Esce a fine 2020, per Terrarossa edizioni. Il romanzo è l’istantanea di una famiglia, colta nel dinamismo delle generazioni. La chiave di lettura è binaria: una coppia di gemelli, la cui complementarietà è tensione verso gli opposti, una coppia di sposi e una coppia di nonni, genitori attraverso lo specchio dei decenni. E al centro una coppia di case: la casa delle madri e la casa delle onde, con la vita tutta intorno.

Cuore pulsante del libro è anche qui un cancello che resiste al tempo e alla salsedine, sono quattro mura, un corridoio come un budello, una vecchia dimora che oppone resistenza alle trasformazioni dei nuovi proprietari. Un contenuto di voci che risuonano per tutta la narrazione accanto ai protagonisti, cui fanno da controcanto: “La casa è divisa in due. I morti si aggirano per camere scomparse, facendo inciampare i vivi in cose che non dovrebbero stare dove stanno“. Un romanzo di sentimenti e di sensi, dove intimità e tenerezza si fondono e si confondono, liquidi.

Il ritmo è piacevole e può ricordare “La casa degli spiriti” di Isabel Allende, lasciando il lettore nell’incertezza delle possibilità, confuso di fronte a una propria suggestione o a un’evocazione dello scrittore. Restano figure come scolpite: “Vischioso, pensava sconsolata Sarabanda nella stanza del centro studi femministi che aveva con tanto orgoglio contribuito a creare. Sono stata un’idiota. Nessuno meglio di lei, figlia minore di una famiglia borghese e patriarcale conosceva le trappole e le zone oscure, gli odi, i rancori, i viscidi tentacoli che quella realtà domestica era in grado di suscitare”. Una storia, insomma, buona per tutte le stagioni che prova a tirar fuori il femminile dai legacci della tradizione, cui profondamente però sa bene di appartenere.

Intimità e incomunicabilità sono anche i temi di “La casa dei Krull”. Qui, innalzati a potenza e riprodotti su scala collettiva. Il romanzo di Georges Simenon, scritto nel 1939 a un passo dalla guerra, esce in Italia molto dopo con Mondadori e dal 2017 è nel catalogo di Adelphi che continua nel suo monumentale lavoro di recupero. Una piccola dimora ai confini del paese, la vita dei protagonisti è un’esistenza ai margini. Anche qui c’è più di un tetto sulla testa, c’è il simbolo di un confine invalicabile.

Il noi e il loro è rigoroso esercizio di separatezza, condotto allo stremo dalla piccola comunità francese che ospita, mal sopportandoli, i protagonisti. L’origine tedesca fa di loro il diverso, l’estraneo, ciò che deve restare fuori dalle mura di cinta. La vita all’interno però pulsa, passioni e sentimenti spingono deformando confini troppo stretti. Il femminile è qui indagato con la lucidità dello scrittore belga che è maestro del giallo psicologico. Con un femminicidio, infine, e il ritrovamento di una donna violentata e gettata in un canale, Simenon ci riporta purtroppo a massacri mai sopiti.

Note di cronaca che riecheggiano nel tempo.

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Titolo: “Questo giorno che incombe”
Autrice: Antonella Lattanzi
Editore: HarperCollins
Anno: 2021
Prezzo: 19,50 euro

Titolo: “La casa delle madri”
Autore: Daniele Petruccioli
Editore: Terrarossa
Anno: 2020
Prezzo: 16 euro

Titolo: “La porta”
Autrice: Magda Szabò
Traduttore: Bruno Ventavoli
Editore: Einaudi
Anno: 2014
Prezzo: 12 euro

Titolo: “La casa dei Krull”
Autore: Georges Simenon
Editore: Adelphi
Anno: 2017
Prezzo: 19 euro