È ora di fare posto alle emozioni, anche sul lavoro

Photo by Tengyart on Unsplash

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Che cosa ce ne facciamo delle emozioni, sul lavoro? Se non siamo abituati a manifestarle, a cercarle negli altri e a riconoscerle è anche perché fino ad oggi siamo rimasti in un paradigma che le considerava “altro” dalla nostra capacità di pensare, e quindi, nella loro complessità e imprevedibilità, confinabili a spazi privati. Anche mentre la distinzione tra privato e professionale andava sfumandosi, ci è sembrato possibile mantenere come logica dominante quella della ragione e, se qualche emozione scappava fuori inavvertitamente, provocava imbarazzo, veniva subito messa a tacere. In realtà, i neuroscienziati hanno rivelato da anni che per il nostro cervello è impossibile pensare senza provare emozioni:

“Benché molti ritengano di essere creature pensanti che sentono, biologicamente noi siamo creature sensibili che pensano”.

Ha scritto la neuroscienziata Jill Bolte Taylor nel suo libro “La scoperta del giardino della mente”. Questo vuol dire che la nostra capacità di pensare e la nostra capacità di sentire sono legate a doppio filo, e la nostra capacità di fare ne è il risultato.

Se chiedessimo ai responsabili delle risorse umane delle aziende “dove” risiede l’attenzione alle emozioni nelle funzioni aziendali, emergerebbero due coordinate principali: tutto ciò che viene chiamato “soft” e la cura del benessere dei dipendenti. La prima categoria sta guadagnando spazio da diversi anni: comprende i valori di un’azienda ma anche le cosiddette soft skill, o competenze umane, e tutti gli aspetti “non hard” della performance delle persone. Soft vuol dire morbido, termine che ci porta istintivamente a considerarlo meno essenziale dell’hard, ricadendo nel dilemma delle emozioni: sono difficili da identificare e misurare, soprattutto in ambienti dove l’imperativo è la semplificazione a fronte di una complessità crescente, e quindi darvi rilevanza equivale a lasciare spazio a ciò che ci sembra di non poter oggettivamente controllare. Un numero è un numero, difficile che si apra un dibattito sul suo valore, ma quando parliamo di un’attitudine, un comportamento, un atteggiamento…?
Le emozioni potrebbero quindi trovare posto in questa area in continua definizione, arricchendola di maggiore complessità: in realtà sono già presenti e nell’ultimo anno nessuno ha potuto ignorarle, ma tardiamo ancora a metterci d’accordo su un glossario comune e una definizione dei processi che le comprendano.

Più facile invece considerarle quando si parla di benessere dei dipendenti: le attività dedicate a far stare meglio le persone in un’azienda possono permettersi di sconfinare dalla scrivania alla mobilità, dal ruolo professionale alle aspirazioni personali, dalle sfide lavorative a quelle legate all’equilibrio vita lavoro. Osservando “come stanno” le persone – pratica in grande crescita in questo periodo di terremoti comportamentali, in cui più niente è scontato, più niente è rimasto immutato – lo sguardo dell’azienda si autorizza a uscire dai confini professionali, soprattutto con l’intenzione di essere di supporto laddove serve, occupandosi di preservare un’energia che è anche motore di pensiero e di produttività.

E’ una responsabilità sociale che le aziende esprimono in forma crescente e che ha la caratteristica di essere “win-win”: non ci perde nessuno, al punto che alcuni dei bisogni tradizionalmente serviti dal settore pubblico sono stati efficacemente occupati da queste iniziative private. Ma, anche una volta identificate, è difficile codificare un sistema in gradi di trattenere le emozioni nello spazio in cui sono emerse: queste sono fatte per sconfinare (le ricerche lo chiamano “spill over”) e qui torniamo al tema iniziale: che cosa ce ne facciamo delle emozioni, sul lavoro?

La ragione per cui abbiamo dei neuroni dedicati a riflettere ciò che provano gli altri (i neuroni specchio) è che le emozioni sono lo snodo principale intorno a cui costruiamo le nostre relazioni e il nostro senso del sé. E, come stanno dimostrando le neuroscienze, sono inestricabilmente collegate alla nostra capacità di ragionare, comprendere e pensare. Sono, insomma, molto in basso nella piramide di Maslow: ignorarle, non prendersene cura, lasciarle scoperte può compromettere l’esecuzione di tutto il resto. Eppure, direte voi, è così che abbiamo fatto per decenni: il mondo del lavoro moderno è fiorito senza dare un posto alle emozioni. Si, ma a che prezzo? Le emozioni che abbiamo lasciato per strada siamo poi andati a cercarle ogni volta che serviva creatività, innovazione, diversità, uno scatto in avanti per cambiare davanti alla realtà che cambia. E oggi, che noi stessi abbiamo posto le condizioni per un cambiamento costante e continuo, cercare di farvi fronte con un pensiero che sfrutti il solo emisfero sinistro del cervello si rivela un compito insensato, in cui, semplicemente, falliamo.

Le emozioni ci sono comunque, e sono biologicamente alla base del nostro intelletto. Guadagnare familiarità con cosa questo significhi ci consente di ridurre gli stereotipi con cui le abbiamo frequentate fin qui – tutto ciò che confiniamo in aree a bassa frequentazione risente dell’eccesso di semplificazione provocato da stereotipi particolarmente incompleti – di arricchire la narrazione su questo aspetto di noi e tra di noi anche in ambito lavorativo, e di attaccare alcuni stigmi particolarmente insidiosi nascosti dietro a parole come paura, fatica, gioia, tristezza, senso di colpa. In questo forse l’esperienza del Covid ha accelerato l’apertura di alcune porte attraverso cui era ora che passassimo, e il risultato potrebbe essere un raddoppio netto delle risorse a disposizione del nostro progresso. Benvenute, dunque, emozioni.

  • Annalisa Laterza |

    Buon giorno,
    trovo questo articolo molto interessante.
    Un passaggio giusto se si vuole raggiungere risultati!!!

    Grazie per lo spunto!

  • Giuseppe Gattullo |

    Aggiungerei anche la passione.
    OK che è bene e giusto nel lavoro rispettare la forma, ma oggi purtroppo si sta disumanizzando troppo le attività lavorative, unicamente per far cassa.
    Strumentalizzare l’emergenza, per poi incentivare una futura precarietà non è il Futuro, ma un colpo basso ai lavoratori.
    Il lavoro a distanza è la futura precarietà.
    Il lavoro senza confini (nessun spazio) senza tempo (nessun tempo) i collaboratori, usati e gettati, (nessun corpo) ossia, mobilità, flessibilità, e precarizzazione, le famiglie professionali sono, la rete, i social network, lo smart working, e-learning, il self service on line ecc..ecc.. che saranno causa di destrutturazioni e probabili distruzioni delle amministrazioni pubbliche e delle società private.
    La complessità oggi è il pane quotidiano, da soli non si fa nulla, c’è bisogno di confrontarsi, c’è bisogno di lavoro in squadra, e organizzare il lavoro in team.
    Pertanto nel lavoro come nella vita, quel che conta e solo la consapevolezza di aver contribuito concretamente alla costruzione di qualcosa di importante, progetti, prodotti, studi, ecc.. destinati questi si a durare nel tempo, che danno autostima, fanno star bene e realizzano le persone.
    In conclusione non conta dove, né il tempo, né l’ologramma in remoto di un singolo collaboratore, ma è la consapevolezza, che è una squadra unita che lavora, a fare la differenza.

  • Aldo |

    La figura del manager freddo e tutto d’un pezzo derivava forse dalla esigenza di riconoscergli capacità di prendere decisioni su ogni problematica che si presentasse anche improvvisamente. Oggi le cose cambiano soprattutto in relazione ai cambiamenti che avvengono nel “sentire” della vita di tutti i giorni. Dimostrare emozione ai giorni nostri è considerato molto meno colpevole, anzi saper esprimere i propri sentimenti è oggi ritenuto una forza e non una debolezza. Di conseguenza cambia anche il mondo del lavoro che è una derivazione della vita sociale intesa in senso lato. Maggiori libertà nella vita di tutti i giorni consentono maggiori libertà anche in azienda. Si abbandona la seriosità senza tralasciare la serietà dell’impegno lavorativo.

  • ezio |

    Tutto giusto, ma molto in teoria, perché nella pratica la razionalità è il controllore degli impulsi istintivi ed emozionali.
    Difficile far uscire la rabbia o il risentimento per il capo la capa o colleghi pesanti ed antipatici.
    Che dire poi delle emozioni conseguanti ad un lavoro noioso e ripetitivo, dove non si condividono le modalità operative ed assegnate?
    Cosa resta, la libera e liberatoria protesta con cambio di mansione, oppure del posto di lavoro?
    I freni inibitori razionali non sono un’invenzione deprimente delle emozioni, ma molto spesso funzionali al raggiungimento e mantenimento del posizione sociale, oltre che della reputazione personale.
    Nessun problema per le emozioni positive, che sono viste ed accettate con simpatia e condivisione, perché uniscono e contagiano di buon umore il gruppo.

  • Simona Maiocchi |

    Assolutamente d’accordo. E’ una questione biologica, prima “sentiamo” e dopo “pensiamo”. E pensiamo anche in base a ciò che sentiamo, quindi è fondamentale “riconoscere” quanto stiamo sentendo. Da lì, possiamo ragionare sulla possibile azione da svolgere. Grazie Riccarda!

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