Che cosa ce ne facciamo delle emozioni, sul lavoro? Se non siamo abituati a manifestarle, a cercarle negli altri e a riconoscerle è anche perché fino ad oggi siamo rimasti in un paradigma che le considerava “altro” dalla nostra capacità di pensare, e quindi, nella loro complessità e imprevedibilità, confinabili a spazi privati. Anche mentre la distinzione tra privato e professionale andava sfumandosi, ci è sembrato possibile mantenere come logica dominante quella della ragione e, se qualche emozione scappava fuori inavvertitamente, provocava imbarazzo, veniva subito messa a tacere. In realtà, i neuroscienziati hanno rivelato da anni che per il nostro cervello è impossibile pensare senza provare emozioni:
“Benché molti ritengano di essere creature pensanti che sentono, biologicamente noi siamo creature sensibili che pensano”.
Ha scritto la neuroscienziata Jill Bolte Taylor nel suo libro “La scoperta del giardino della mente”. Questo vuol dire che la nostra capacità di pensare e la nostra capacità di sentire sono legate a doppio filo, e la nostra capacità di fare ne è il risultato.
Se chiedessimo ai responsabili delle risorse umane delle aziende “dove” risiede l’attenzione alle emozioni nelle funzioni aziendali, emergerebbero due coordinate principali: tutto ciò che viene chiamato “soft” e la cura del benessere dei dipendenti. La prima categoria sta guadagnando spazio da diversi anni: comprende i valori di un’azienda ma anche le cosiddette soft skill, o competenze umane, e tutti gli aspetti “non hard” della performance delle persone. Soft vuol dire morbido, termine che ci porta istintivamente a considerarlo meno essenziale dell’hard, ricadendo nel dilemma delle emozioni: sono difficili da identificare e misurare, soprattutto in ambienti dove l’imperativo è la semplificazione a fronte di una complessità crescente, e quindi darvi rilevanza equivale a lasciare spazio a ciò che ci sembra di non poter oggettivamente controllare. Un numero è un numero, difficile che si apra un dibattito sul suo valore, ma quando parliamo di un’attitudine, un comportamento, un atteggiamento…?
Le emozioni potrebbero quindi trovare posto in questa area in continua definizione, arricchendola di maggiore complessità: in realtà sono già presenti e nell’ultimo anno nessuno ha potuto ignorarle, ma tardiamo ancora a metterci d’accordo su un glossario comune e una definizione dei processi che le comprendano.
Più facile invece considerarle quando si parla di benessere dei dipendenti: le attività dedicate a far stare meglio le persone in un’azienda possono permettersi di sconfinare dalla scrivania alla mobilità, dal ruolo professionale alle aspirazioni personali, dalle sfide lavorative a quelle legate all’equilibrio vita lavoro. Osservando “come stanno” le persone – pratica in grande crescita in questo periodo di terremoti comportamentali, in cui più niente è scontato, più niente è rimasto immutato – lo sguardo dell’azienda si autorizza a uscire dai confini professionali, soprattutto con l’intenzione di essere di supporto laddove serve, occupandosi di preservare un’energia che è anche motore di pensiero e di produttività.
E’ una responsabilità sociale che le aziende esprimono in forma crescente e che ha la caratteristica di essere “win-win”: non ci perde nessuno, al punto che alcuni dei bisogni tradizionalmente serviti dal settore pubblico sono stati efficacemente occupati da queste iniziative private. Ma, anche una volta identificate, è difficile codificare un sistema in gradi di trattenere le emozioni nello spazio in cui sono emerse: queste sono fatte per sconfinare (le ricerche lo chiamano “spill over”) e qui torniamo al tema iniziale: che cosa ce ne facciamo delle emozioni, sul lavoro?
La ragione per cui abbiamo dei neuroni dedicati a riflettere ciò che provano gli altri (i neuroni specchio) è che le emozioni sono lo snodo principale intorno a cui costruiamo le nostre relazioni e il nostro senso del sé. E, come stanno dimostrando le neuroscienze, sono inestricabilmente collegate alla nostra capacità di ragionare, comprendere e pensare. Sono, insomma, molto in basso nella piramide di Maslow: ignorarle, non prendersene cura, lasciarle scoperte può compromettere l’esecuzione di tutto il resto. Eppure, direte voi, è così che abbiamo fatto per decenni: il mondo del lavoro moderno è fiorito senza dare un posto alle emozioni. Si, ma a che prezzo? Le emozioni che abbiamo lasciato per strada siamo poi andati a cercarle ogni volta che serviva creatività, innovazione, diversità, uno scatto in avanti per cambiare davanti alla realtà che cambia. E oggi, che noi stessi abbiamo posto le condizioni per un cambiamento costante e continuo, cercare di farvi fronte con un pensiero che sfrutti il solo emisfero sinistro del cervello si rivela un compito insensato, in cui, semplicemente, falliamo.
Le emozioni ci sono comunque, e sono biologicamente alla base del nostro intelletto. Guadagnare familiarità con cosa questo significhi ci consente di ridurre gli stereotipi con cui le abbiamo frequentate fin qui – tutto ciò che confiniamo in aree a bassa frequentazione risente dell’eccesso di semplificazione provocato da stereotipi particolarmente incompleti – di arricchire la narrazione su questo aspetto di noi e tra di noi anche in ambito lavorativo, e di attaccare alcuni stigmi particolarmente insidiosi nascosti dietro a parole come paura, fatica, gioia, tristezza, senso di colpa. In questo forse l’esperienza del Covid ha accelerato l’apertura di alcune porte attraverso cui era ora che passassimo, e il risultato potrebbe essere un raddoppio netto delle risorse a disposizione del nostro progresso. Benvenute, dunque, emozioni.