Qual è il filo che lega il nuovo libro dell’allenatore del Bologna, Siniša Mihajlović, al bambino di sei mesi morto di freddo questa settimana mentre la madre migrante cercava speranza attraversando il Mediterraneo?
Deve esserci per forza un filo: oggi non possiamo più ignorare che siamo tutti collegati e che tutte le nostre storie si tengono insieme. Il libro dell’allenatore serbo si intitola “La partita della vita” e racconta come la vicinanza con la morte gli abbia messo davanti agli occhi un valore della vita che prima dava per scontato, e quindi “non vedeva”. Rischiare di perderla, gli ha reso la vita finalmente visibile nella sua preziosa fragilità. Mentre questo accade, in altre parti del mondo persone muoiono nell’attesa di diventare visibili, forse muoiono proprio perché invisibili.
E di invisibilità parla anche il film “Ancora donne. Quando l’amore non ha età” in uscita il prossimo 26 novembre: la storia di 5 donne ultrasessantenni vedove o separate, “alle prese con la loro battaglia contro la solitudine”. La solitudine è la conseguenza dell’invisibilità: non si è soli quando si è da soli, si è soli quando ci si sente invisibili. Infatti si può restare da soli anche vivendo in due: succede quando si diventa invisibili all’altro. L’amore, anche quello per la vita, è uno sguardo: è un accettare di vedere quel che c’è, forzando la nostra percezione a cogliere anche ciò che l’affatica – perché il nostro cervello risparmia risorse quando non vede niente di nuovo. Da qui l’inclinazione verso il già noto e la resistenza ad accogliere i cambiamenti che la realtà ci presenta.
È una gran fatica, tenere gli occhi bene aperti. Per questo lo sguardo degli altri, quando ci vede, ci rassicura e ci consola: se siamo visti, abbiamo la conferma che esistiamo, e questo arricchisce anche la nostra percezione di noi.
In quanti e quante volte rischiamo, invece, di finire “fuori dal quadro”?
Ci è finito il bambino morto l’altra notte di freddo nel Mar Mediterraneo, mentre la madre lo aveva tenuto miracolosamente a galla per ore in attesa dei soccorsi: deve per forza essere invisibile, altrimenti avremmo tutti il cuore spezzato come la sua mamma e non permetteremmo che accada ancora e ancora. Si chiamava Joseph e veniva dalla Guinea.
Ci è finito Mihajlović, per tutto il tempo in cui è stato visto e si è visto “solo” come un combattente, ignorando la ricchezza della propria fragilità o tenendola al margine, salvo poi scoprire che il senso della vita era nascosto proprio lì.
Ci finiscono ogni giorno milioni di persone che smettono di guardarsi allo specchio nel timore di avere conferma dei “raggiunti limiti di età” e a cui, quand’anche la presbiopia li preservi dalla notizia, è il mondo stesso a ricordare quotidianamente che “quel tempo della vita ha una sola lente: quella dell’inevitabile viale del tramonto, in cui si vive solo di bisogni, e non di sogni, desideri, voglia di mettersi in gioco e cambiare”.
La capacità di vedere, la possibilità di essere visti – e non è strano parlarne proprio oggi, che alterniamo l’essere semi invisibili per via delle mascherine con l’essere ansiosamente visibili nei nostri schermi a due dimensioni – disegnano un territorio che può ospitare insieme la vita e la morte, facendoci sentire meno soli davanti a entrambe: perché nel momento in cui le vediamo, e solo in quel momento, anche le zone grigie sono libere di rivelare tutti i propri colori.