Lgbt, un’impresa su 5 ha adottato misure di diversity (Istat)

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Oltre un quinto delle imprese ha adottato almeno una misura con l’obiettivo di gestire e valorizzare la diversity. È quanto emerge dallo studio Istat pubblicato questa mattina sul diversity management (DM) per le diversità LGBT+, prodotto nel progetto collaborativo Istat-UNAR su “Accesso al lavoro, condizioni lavorative e discriminazioni sul lavoro delle persone LGBT+ e sulle diversity policies attuate presso le imprese”.

Il rapporto fornisce un quadro generale su scala nazionale della diffusione delle misure adottate dalle imprese per riconoscere, includere e valorizzare le diversità tra i lavoratori legate a genere, età, cittadinanza, nazionalità e/o etnia, convinzioni religiose o disabilità. Le misure di Diversity Management prese in esame fanno capo a imprese con almeno 50 dipendenti nel settore industria e servizi. In linea generale, si osserva che sono soprattutto le imprese di grandi dimensioni a essere coinvolte nell’applicazione di tali misure, ovvero il 34% delle imprese con almeno 500 dipendenti, a fronte del 19,8% delle imprese più piccole (50-499 dipendenti).

Anzitutto sono state prese in considerazione le misure di diversity non obbligatorie per legge, ad esempio eventi formativi rivolti al top management e ai lavoratori sui temi legati alle diversità; iniziative di promozione della cultura d’inclusione e valorizzazione delle diversità; misure ad hoc per i lavoratori transgender. L’attenzione delle imprese più grandi si conferma in tutti gli ambiti considerati: sono coinvolte in media il 25,5% delle imprese per le misure inerenti sia il genere che la disabilità, mentre per le piccole imprese sono coinvolte rispettivamente il 15,2% e l’11,9%. Lo stesso accade per le misure legate alle diversità per età (19,5%), cittadinanza, nazionalità e/o etnia (16,3%) e alle convinzioni religiose (12%), che nelle imprese più piccole sono state adottate rispettivamente nel 10,4%, 9,7% e 9% dei casi. 

Non solo la grandezza dell’impresa, ma anche l’età della stessa ha rivelato delle tendenze generali: nel complesso, oltre un quarto delle imprese mediane (tra 12 e 31 anni) adotta misure di DM in almeno uno degli ambiti considerati; più ridotte le quote riferite alle imprese più giovani (0-11 anni, 15%) e a quelle più anziane (32 anni e oltre, 18%). Dal punto di vista territoriale emergono differenze più marcate. Se si guarda alle imprese più grandi (500 e più dipendenti) il DM è più diffuso nel Nord del Paese, dove il 37,8% adotta almeno una misura. Seguono le imprese del Centro (29,3%) e del Mezzogiorno (20,2%). Per le imprese con 50-499 dipendenti la quota più bassa è nel Mezzogiorno (14,8%) mentre Centro e Nord sono quasi equivalenti (mediamente 21%).

Il Diversity Management per l’inclusione LGBTQ+
La legge 76/2016 (Legge Cirinnà) ha introdotto l’istituto dell’unione civile, prevedendo il riconoscimento giuridico della coppia formata da persone dello stesso sesso. Questo ordinamento ha ovviamente riflessi anche nella sfera lavorativa, e l’adeguamento da parte dei datori di lavoro alla normativa comprende, fra l’altro: il congedo equiparabile a quello previsto in caso di matrimonio; l’obbligo di estensione dei congedi e permessi previsti per determinate esigenze familiari di assistenza ; l’obbligo di estensione dei regimi di welfare in tema di istruzione, ricreazione, assistenza sociale o sanitaria, flessibilità dell’orario di lavoro, smart working, uso dell’autovettura aziendale estesa al partner. 

Tutte le imprese sono state chiamate ad applicare le disposizioni, ma dall’entrata in vigore della legge all’effettuazione dell’intervista (2019), solamente il 7,7% si è trovato nelle condizioni concrete di applicare le disposizioni su richiesta dei lavoratori. Le richieste sono state più numerose tra le imprese di grandi dimensioni, interessando circa un’impresa su tre fra quelle con almeno 500 dipendenti, contro il 6% delle imprese con 50-499 dipendenti. Il 43,5% dichiara di aver concesso il congedo matrimoniale a seguito di un’unione civile.

Le imprese più virtuose in tema di diversity si sono trovate poi ad applicare almeno una misura ulteriore rispetto a quanto già stabilito per legge, volta a favorire l’inclusione dei lavoratori LGBT+. Le misure maggiormente adottate sono quelle destinate ai lavoratori transgender, e la più diffusa riguarda la possibilità per questi lavoratori di usare servizi igienici, spogliatoi, ecc. in modo coerente con la propria identità di genere. Ma va notata una grande variabilità di questo dato a seconda della classe dimensionale dell’azienda in esame: si passa dal 3% per le imprese fra i 50 e i 499 dipendenti al 7,8% per le imprese più grandi. Lo stesso si osserva per le iniziative che garantiscono ai lavoratori transgender il diritto di esprimere la loro identità di genere in maniera visibile (anche attraverso l’abbigliamento) che costituisce la terza misura per incidenza nella classifica generale delle misure adottate. Parliamo del 2% delle imprese con almeno 50 dipendenti mentre tra quelle più grandi la quota arriva al 6,8%. 

Infine meritano attenzione le motivazioni indagate che hanno portato le imprese a dedicare misure e interventi sui temi della diversity: prevenire atti discriminatori all’interno dell’impresa è la motivazione più segnalata, nel 49,8% dei casi. La seconda motivazione, per diffusione, è favorire il benessere, la soddisfazione e la motivazione dei lavoratori, riportata dal 42,5% delle imprese. Seguono poi argomenti più legati all’incentivazione delle capacità e dei talenti dei lavoratori: creare un ambiente di lavoro che favorisca l’esplicitazione del talento di ciascuno (21,4%) e attrarre i lavoratori migliori, indipendentemente dal loro orientamento sessuale o identità di genere (18,4%). 

In generale un quadro movimentato, o comunque in movimento. Ma si può e si deve fare di più, perché, come ha affermato Carlamaria Tiburtini, diversity leader di Avio Aero: “Il concetto di diversità non ha a che fare col queer, ma col rispettare la complessità degli individui. La diversity ha bisogno di alleati”.