“Non mi interessa essere una leader, ma far parte di un team vincente” . Questa frase che potrebbe sembrare provenire da un qualsiasi membro di una squadra sportiva è invece della giornalista americana Jane Pauley e si riferisce al team di persone con cui collabora nella sua professione. La metafora sportiva e della squadra è sempre più legata al mondo professionale e capacità come leadership, conduzione dei gruppi, orientamento agli interlocutori e gestione dei conflitti sono evidentemente e fortemente sinergiche con gli sport comunemente definiti “di squadra”,
E le altre discipline? Quelle abitualmente definite “individuali”? Sono realmente “singole”? E come si relazionano con queste competenze? Le riflessioni di questo periodo con manager e persone di sport mi hanno portato a pensare che ci sia molta confusione sull’etichettare una competizione sportiva come “individuale” e sulla possibilità di ipotizzare quali competenze questa possa sviluppare negli atleti e nelle atlete che la praticano.
Nelle ultime settimane mi è capitato di intervistare tre donne di sport, Maria Beatrice Benvenuti, arbitra internazionale di rugby; Manuela Zanchi, campionessa olimpionica con il setterosa ad Atene 2004; Arjola Trimi, campionessa paralimpica plurimedagliata a Londra 2019. Ero convinto di incontrare tre modi molto differenti di vivere lo sport. In realtà ho trovato tra loro molte più analogie che differenze e, sebbene le competenze messe in gioco nella propria disciplina da ognuna di loro potessero apparire diverse, ho scoperto che leadership, relazioni e gioco di squadra sono il cuore della vita di tutte, indipendentemente dall’apparente singolarità della performance di alcune di loro.
Parlando con Manuela Zanchi di pallanuoto, disciplina facilmente riconoscibile come gioco di squadra, oltre al fluire di passione ed emozioni, sono emerse in modo netto le skill più note del lavoro in team: la leadership del capitano e dell’allenatore, la relazione di partnership tra compagne di squadra, la gestione delle normali conflittualità spiccano nei suoi racconti. Allo stesso modo risulta evidente l’orientamento ad un risultato ottenibile solo con la forza e l’organizzazione del gruppo. Ma è possibile trovare le stesse skill in sport apparentemente individuali?
Il confronto con Maria Beatrice Benvenuti, che erroneamente non reputavo essere una sportiva “di squadra”, ha iniziato a supportare nuove riflessioni. Anche lei un tornado di passione ed emozioni, per prima cosa ha saputo mettere in luce quelle che appaiono come le skill più delicate nel suo ruolo: la capacità di decidere in tempi brevi, la leadership nella conduzione del match e il rispetto reciproco che caratterizzano il rapporto tra arbitro, giocatore ed allenatore. Ma il sentirla parlare di collaborazione e cooperazione con atleti, coach e dirigenti ancor prima di quella con i suoi colleghi, ha mostrato una relazione con gli altri che è al centro della riuscita della gara che lei dirige. Di sicuro un contesto di squadra molto particolare, in cui Maria Beatrice fa parte di un team i cui giocatori cambiano in ogni partita, ma dove le capacità di gestione dei conflitti e di coordinamento appaiono da subito fondamentali .
La convinzione di come la maggior parte degli sport non siano “individuali” è cresciuta esponenzialmente durante l’intervista #uncaffècon Arjola Trimi.
Nuotatrice dai numerosi successi, Arjola è stata molto efficace nel sottolineare come il suo sport sia “individuale” solo nella performance finale: il momento della gara. Per lei che nuota i 50 stile libero paralimpici questa fase individuale non dura più di 40 secondi. Tutto il resto del suo impegno è decisamente inserito in un lavoro di squadra: allenatore che guida i suoi percorsi, compagni che sostengono i momenti duri di allenamento, organizzazione del tempo con staff tecnico e massaggiatori, relazioni con i tifosi e soprattutto celebrazione dei successi.
La vita di Arjola appare tutt’altro che quella di una “sportiva singola”! Nel suo messaggio esplode con forza la passione di essere all’interno di una squadra che le consente di vivere il fascino della vita da spogliatoio che se mancasse potrebbe quasi farle passare la voglia di soffrire in allenamento; dal suo racconto emerge l’emozione di esser parte di un gruppo che lavora coeso sostenendosi nelle difficoltà reciproche e godendosi le gioie dei successi.
Queste riflessioni impattano di sicuro sulla visione del mondo del lavoro e sulla lettura delle competenze che un manager può avere verso collaboratori, partner o colleghi. Nel contesto aziendale sono molte le situazioni in cui la performance finale appare individuale nonostante il lavoro sia stato di squadra: per citare due esempi su tutti, le presentazioni durante le riunioni sono spesso il frutto di un lavoro di team indipendentemente dalla persona che le racconta, così come una vendita nasce spesso dal lavoro di un gruppo ma l’incontro col cliente può venir condotto da un singolo.
Appare allora ancor più evidente come un manager che sceglie un potenziale collaboratore, scoprendolo sportivo “individuale”, debba aspettarsi in lui capacità che vadano ben oltre alla costanza, alla determinazione ed alla pianificazione e debba approfondire la ricerca per scoprire skill che penserebbe di trovare in qualcuno che pratica sport “di squadra”. Allo stesso modo la motivazione alla performance all’interno di un team potrà esser alimentata da metafore sportive più spinte sulle discipline singole “solo in apparenza” che invece ben rappresentano il cuore di un progetto di squadra che però culmina con una visibilità individuale.