Il 16 aprile moriva Luis Sepúlveda. La fine della storia.

sepulveda_la-fine-della-storia

È passato un mese dal giorno della sua morte. Settantuno anni, compiuti a ottobre, Luis Sepúlveda se n’è andato, in un ospedale delle Asturie dove era ricoverato da febbraio, vittima illustre di quel Covid-19 che è ormai l’impronta di questo 2020. Raccontare La fine della storia può servire a salutarlo, come un amico che non si è mai pronti a lasciare andare.

Ma prima di cominciare, bisogna tentare di fissare chi sia, davvero, lo scrittore cileno. E questo è un compito che non si può affrontare, se non avendo un’idea chiara del suo vastissimo e sfaccettato pubblico. Si dovrà intanto provare a spiegarlo ai bambini, cui Sepúlveda ha dedicato alcune tra le più belle favole moderne. Citare Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, può servire a invitare genitori e insegnanti ad affrettarsi a riscoprire quelle pagine.

Non si può poi dire di questo maestro della letteratura mondiale tacendone il tratto umano che, nettissimo, viene fuori da ogni sua opera. La storia di Lucho, come intimamente il mondo aveva imparato a chiamarlo, ha i colori della resistenza. È quella di un uomo che ha speso la vita a combattere per la libertà. Contro l’oppressione della dittatura di Pinochet, ha attraversato la prigionia, la tortura, l’esilio; di lui va esaltato l’impegno civile, sensibile a ogni sollecitazione, non ultima quella per l’ambiente che lo ha visto navigante, imbarcato per mare con Greenpeace. Avrebbe dovuto intitolarsi Agua mala, quella che rimarrà per sempre la sua ultima fatica, lavoro mai compiuto.

Luis Sepúlveda è dunque un uomo che ha regalato alla letteratura non solo una produzione di indubitabile pregio, ma che insieme le ha consegnato le sue idee, cariche di principi e sature di suggestioni. Del romanzo che abbiamo scelto diremo subito che esce in Spagna nel 2016; in Italia arriva grazie a Guanda edizioni, come il resto della sua produzione.

Circa duecento pagine dense, di una narrazione fitta che catapulta il lettore in una spy story, dai contorni dapprima soffusi poi sempre più nitidi. È un viaggio tra l’Europa e l’America Latina, latitudini lontane attraverso le quali lo scrittore ha deciso di condurre chi si avventura tra le pagine di quell’ultimo romanzo. Dentro c’è la prosa che Sepúlveda, come pochi altri, sa trasformare in poesia; ci sono le visioni che hanno certamente riempito la sua vita di combattente e di esule; ci sono i versi di compagni, sapientemente richiamati: “Se l’appuntamento era con la morte e la morte ci trovava insieme, le avremmo dimostrato, come dice quella poesia di Benedetti, che eravamo molto più di due”.

E c’è l’amore, appunto. La quarta di copertina avvisa con chiarezza il lettore su cosa dovrà aspettarsi: “Juan Belmonte, dopo aver combattuto tante battaglie – prima fra tutte quella al fianco di Salvador Allende – da anni ha deposto le armi e vive tranquillo in una casa sul mare nell’estremo sud del Cile, insieme alla sua compagna Verónica, che non si è mai completamente ripresa dopo le torture subite all’epoca della dittatura”. Il protagonista lo si riconosce presto e la linea sottile che lo lega a Veronica è la stessa che esiste tra lo scrittore e l’amore di una vita, la poetessa Carmen Yáñez che Lucho ha perso nel gorgo del regime e poi ritrovato e che ha finito per sposare due volte. Lei ha già deciso che le ceneri del marito troveranno riposo in Patagonia, che per dirla con le parole di lui è Là dove finisce la terra.

La passione che pervade la narrazione fa muovere il lettore come su una scacchiera, senza però fargli avvertire nemmeno la stanchezza, da un luogo all’altro, da un tempo all’altro. Lo stile qui è ritmo puro. Ci si sposta per emisferi ma insieme ci si muove percorrendo in lungo e in largo tutto il Novecento. Riconosciamo quel secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle, coi suoi lembi appuntiti come aghi, acuti come ami che pungono e catturano. E sprofondare nell’orrore e nelle nefandezze di un’umanità capace di tutto è cosa di un momento. Le coordinate sono precise: si passa davanti a Villa Grimaldi, detta anche caserma Terranova, luogo di torture e delle peggiori atrocità del regime.

È proprio lì che il lettore si trova faccia a faccia con la protagonista, che si svela: eccola, una donna che incarna la forza della resistenza, la tenacia di ideali incrollabili. “Da quel portone Verónica era entrata con le mani legate e gli occhi bendati. In mezzo a quei giardini, adesso pieni di rose in fiore, aveva sopportato l’inimmaginabile ed era rimasta in silenzio. Da quello stesso portone un giorno l’avevano fatta uscire, credendola morta insieme ai corpi senza vita di altre donne e uomini giovani come lei, e li avevano gettati tutti in una discarica per seminare il terrore su cui si reggeva la dittatura”.

Nessuno è capace di precisare quale sia la cosa peggiore del carcere, dell’essere prigioniero di una dittatura, di qualunque dittatura – la sua voce ci arriva cristallina – e nemmeno io posso indicare se il peggio di tutto ciò che ho dovuto sopportare sia stata la tortura, i lunghi mesi di isolamento in una fossa che mi appestava, il non sapere se fosse giorno oppure notte, l’ignorare da quanto tempo stessi nelle mani degli sbirri di Pinochet, i simulacri di fucilazione, i compagni morti o la denigrazione costante e sistematica. Tutto è peggio in carcere, e ricordo specialmente un momento in cui i militari quasi ottennero ciò che volevano: che accettassi volontariamente di essere annichilito e condannato all’atroce solitudine degli sconfitti”. Sono parole sue, regalate ad Amnesty International nella prefazione di Non sopportiamo la tortura, edito da Rizzoli, nel 2000.

Luis Sepúlveda insomma conosce bene il prezzo della libertà e quello durissimo della resistenza. E fa in modo che a ricordarcelo sia proprio Juan Belmonte, quello che altrove definì fratello di sconfitte. Si serve dell’uomo col nome da torero, ruvido e schivo, ma anche deciso, coraggioso, eppure romantico, a tratti triste ma mai rassegnato, uno che in fondo gli somiglia forse più di quanto immagini. Certamente non potrà dirsi sconfitto chi riesce a sorprendersi e a mostrare tenerezza: “In Plaza Ñuñoa si radunavano giovani, allegri, spensierati, e fui contento di vederli così, seguiti soltanto da qualche cane vagabondo e non dalle ombre del passato”.

Come Luis, Juan sa perfettamente che “la politica è cominciata quando Caino ha ammazzato Abele e da allora nulla è privo di importanza”. Si spiega così un’esistenza che è insieme poetica ed epica. Siamo, è vero, alla fine della storia ma le pagine di quello che resta di lui compongono ben più di un romanzo.

Titolo: “La fine della storia”
Autore: Luis Sepúlveda
Editore: Guanda
Prezzo: 17 euro