Non possiamo stare lontani gli uni dagli altri: moriremmo, o comunque saremmo a grave rischio di problemi psicologici e fisici. La solitudine cronica, spiega il professor Jamil Zaki dell’università di Stanford, produce un rischio di mortalità pari a quello di fumare 15 sigarette al giorno. Non sono un’esperta, ma credo che il fumo abbia un rischio di mortalità più alto di quello del covid-19 – secondo l’organizzazione Mondiale della Sanità, oltre la metà dei fumatori muore per cause legate al fumo: otto milioni di persone all’anno nel mondo (di cui oltre 1 milione per fumo passivo).
Quindi il distanziamento sociale, unica prevenzione per ora disponibile per la pandemia, rischia di farci molto male?
In realtà, più che le regole di distanza che dovremo adottare nella tanto attesa “fase 2”, a farci male rischia di essere la scarsa cura con cui ci vengono date queste istruzioni, noncuranza che trova terreno fertile nella nostra paura.
E infatti chi sente più ridere qualcuno in strada, chi vede più sorridere gli occhi di un passante, chi osa più un gesto gentile oggi o lo oserà domani, se ci viene detto di dover essere “socialmente distanti”?
Come è naturale, restringiamo la cerchia di quelli con cui e per cui siamo disposti a “rischiare” e tutti gli altri via: a debita distanza sociale!
Persino l’Organizzazione Mondiale della Sanità si è raccomandata, dopo aver usato per prima il termine “distanziamento sociale”, di aggiustare il vocabolario e chiamarlo in modo più corretto: “distanziamento fisico”. Dobbiamo tenere una distanza fisica gli uni dagli altri (di 1 metro per l’OMS, di 2 metri per il Regno Unito, di due sedili e un bacio per i cinema…) che ci protegga e protegga gli altri da noi, e intanto dobbiamo tenere una vicinanza sociale strettissima, per proteggerci altrettanto bene. Con tutti: non solo con il nostro nucleo amicale più prossimo. Abbiamo un bisogno folle, ora più che mai, della gentilezza che possiamo dare e ricevere, della compassione dei gesti più semplici, della sensazione di essere tra amici.
E invece eccola: la diffidenza del distanziamento sociale, il rafforzamento dei perimetri giudicanti tra di noi, il dentro e il fuori… le tribù.
Eppure, il nostro istinto naturale dopo i disastri sarebbe quello di aiutarci l’uno con l’altro, di stare insieme. Uno stare insieme che non ha bisogno di grandi intendimenti, ma a cui bastano veramente gesti piccoli e quotidiani. Eccone per esempio quattro che ho scoperto di fare in questi giorni, e che mi fanno stare bene:
1) parlo con tutti i vicini, proprio tutti, ogni volta che posso (e con alcuni scambio anche cibo, stampe, ritiro pacchi);
2) esco tutte le volte che posso in strada alle 18 ad ascoltare i tre pezzi al flauto traverso suonati dalla coppia siciliana del quinto piano del palazzo di fronte (lei regge il cellulare con lo spartito, lui suona);
3) uso skype per mettere insieme la nonna e la nipote romana e i nipoti milanesi un’ora ogni giorno per una lezione incrociata di italiano e di spagnolo – la nonna romana confessa di non essersi mai sentita più amata e cercata di adesso;
4) nella mia azienda abbiamo fatto il primo questa settimana e lo abbiamo chiamato “business spritz”, mentre per il professor Zeki è il canale Zoom che si chiama “Coffee channel”: io che al lavoro non ho mai chiacchierato molto, adesso cerco i miei colleghi per provare a “non fare niente insieme”… online.
Allora un invito, una preghiera, una speranza verso le numerose task force che si stanno occupando di progettare il nostro prossimo futuro: che tanta attenzione al contenitore non vi faccia perdere di vista il contenuto, perché l’anima delle persone ha bisogno di vicinanza. Quindi non chiamiamolo e non chiediamo “distanziamento sociale”, ma fisico: perché le parole pesano e condizionano sentimenti e comportamenti, soprattutto in tempi incerti come questi.