Salari, perché misurare quelli delle donne su quelli degli uomini?

the-last-shirt-dollar-bill-20-euro-folded-128878

Quanto guadagnano le donne in meno rispetto agli uomini? Questa è la domanda che si pongono i ricercatori[1] quando calcolano il gender pay gap, ma usare i salari maschili come termine di paragone è una scelta, e non è l’unica scelta possibile. Stabilire quale debba essere il termine di paragone è cruciale per l’interpretazione dei risultati, perché misurare lo scostamento rispetto al livello retributivo maschile significa assumere che sia proprio il salario degli uomini a rappresentare “la giusta mercede”, cioè la retribuzione che riflette e compensa il contributo di ciascuno all’attività produttiva.

Nell’analisi del gender pay gap si assume che i livelli del salario riflettano la diversa produttività di uomini e donne, e quindi che le differenze di retribuzione trovino spiegazione nelle differenze di produttività. Ma per quanto ampia sia la base di dati, cioè la quantità di informazioni disponibili ai ricercatori, i calcoli lasciano sempre un residuo non spiegato, cioè una componente che non è riconducibile alle diverse caratteristiche produttive di donne e uomini.

Per determinare questo residuo si fa ricorso ad un ragionamento ipotetico; si definisce cioè un salario immaginario (detto controfattuale) che risponde alla domanda seguente: quanto guadagnerebbero le donne se le loro caratteristiche produttive fossero pagate come sono attualmente pagate agli uomini? Oppure, per dire la stessa cosa in altro modo, quanto guadagnerebbero le donne se le loro caratteristiche produttive garantissero loro lo stesso rendimento che garantiscono agli uomini?

Il confronto tra i salari femminili reali e questo termine di paragone ipotetico misura la differenza di rendimento delle stesse caratteristiche produttive, e quindi lo scostamento tra i due aggregati ci dà la misura dell’ingiustizia, della discriminazione di genere nelle retribuzioni, della componente non spiegata del gender pay gap, della disparità di trattamento che non dipende dalla produttività ma dall’appartenenza di genere, cioè dai pregiudizi e dagli stereotipi che non hanno fondamento economico e che danneggiano le donne, le imprese e la società.

Ma sia ben chiaro che usare i salari maschili come termine di paragone nella costruzione ipotetica è una scelta del ricercatore, e poiché non è l’unica scelta possibile proviamo a prendere in esame anche soluzioni alternative.

Domandiamoci, ad esempio, se non possano essere proprio i salari femminili, invece di quelli maschili, a rappresentare “la giusta mercede”. In tal caso, la parte non spiegata della differenza di genere non sarebbe conseguenza della discriminazione nei confronti delle donne ma del favoritismo nei confronti della componente maschile, cioè della sopravvalutazione della produttività degli uomini. Secondo questa ipotesi, i salari maschili di un sistema economico senza favoritismo risulterebbero più bassi rispetto a quelli di un sistema economico con favoritismo.

Noooo! Prof, guadagneremo già così poco che non ci può dire che siamo anche favoriti e sopravvalutati!

Vero, mediamente. Però provate a porre l’attenzione sulle retribuzioni dei livelli apicali, come quelli appena pubblicati da Mediobanca nel Focus sulle «Caratteristiche dei board delle società con sede in Italia quotate». Il compenso per amministratori, direttori generali e sindaci di genere maschile è pari a 874mila euro: è credibile che sia questa la misura reale del loro contributo all’attività produttiva? Il compenso per una donna con la stessa carica è quasi dimezzato (46% in meno): è credibile che questa differenza retributiva sia tutta legittimata dalla differenza di produttività?

Prof, allora in questo caso è più giusto dire che le donne sono discriminate o che gli uomini sono favoriti?

Entrambe le affermazioni sono sbagliate, se riferite a questi dati. Questi dati ci dicono solo che c’è una differenza di genere nella retribuzione, ma non ci dicono nulla di quello che serve per definire la costruzione ipotetica, cioè per isolare la componente non spiegata (discriminazione o favoritismo che sia); non sappiamo quali siano le diverse caratteristiche produttive dei due gruppi. Differenza di genere e discriminazione di genere non sono sinonimi e non possono essere usati come tali, il loro significato è profondamente diverso.

Prof, per la scelta del termine di paragone c’è una terza alternativa?

Sì, ed è la migliore. Sta da qualche parte tra le prime due[2].


[1] – Ad esempio, Oaxaca 1973, Blinder 1973; Oaxaca e Ransom 1994.

[2] Ad esempio Fortin 2008.

  • Stefania Brancaccio |

    Buon 2020 a tutte noi
    Sono Stefania Brancaccio un imprenditrice del Sud metalmeccanica cavaliere del lavoro da sempre 1973 ,impegnata al fianco delle donne e dei nostri irrisolti problemi
    Mi farebbe molto n piacere partecipare al vostro blog

    da

  Post Precedente
Post Successivo