Hello, quanto è in ritardo l’Italia sull’inglese?

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Nel mondo sono gli svedesi (secondo gli ultimi dati disponibili) quelli che, pur avendo un’altra lingua madre, meglio si esprimono, capiscono e comunicano in inglese. Hanno superato i Paesi Bassi, da anni al primo posto di una classifica dominata da nazioni del nord Europa. Le ragioni sono svariate e vanno dalla radice germanica che le accomuna – dal danese, all’islandese, al norvegese – alla necessità di farsi capire al di fuori della propria spesso limitata cerchia di concittadini. In definitiva queste nazioni contano ciascuna pochi milioni di abitanti.

A ben vedere però, rispetto alle lezioni impartite sui banchi di scuola, sembrano essere più responsabili di aver formato l’abitudine all’inglese, la televisione e i film sottotitolati – con buona pace dei numerosi professionisti del doppiaggio italiani. In Olanda sicuramente e almeno durante il ciclo di studi primario, che va dai 4 ai 12 anni, l’insegnamento di un’altra lingua non è parte standard del curriculum obbligatorio. La struttura che frequentano i miei figli, ad esempio, ci ha comunicato che nelle 940 ore di istruzione annuali non ci sono gli spazi per aggiungere questa materia. E anche considerando i gradi superiori, per quanto diventi diffusamente più importante, lo studio delle lingue si affianca alle altre materie, senza sfociare però in percorsi bilingue.

Considerato il livello di inglese che gli olandesi dimostrano dalle grandi città ai villaggi più sperduti, tutto ciò un po’ mi ha sorpreso soprattutto da quando ho iniziato a dovermi interessare delle offerte scolastiche. Come si spiega questa grande capacità di comunicare in un’altra lingua già da adolescenti? Perché non si conosce allo stesso livello, per esempio, il tedesco più vicino per struttura, vocabolario e costruzioni sintattiche?

Vale certo il discorso sul numero ridotto di chi parla olandese nel mondo, da unire poi anche al rapporto (storicamente) stretto con il Regno Unito e al tema del commercio su scala mondiale. Non c’è poi da dimenticare, un po’ causa e un po’ conseguenza, l’offerta di percorsi universitari insegnati in inglese talmente ampia da innescare periodicamente dibattiti sulla necessità di limitare i posti per gli stranieri – la giustificazione sarebbe quella di migliorare così la conoscenza dell’olandese dei più giovani.

Si tratterebbe allora di una combinazione di fattori, culturali, scolastici e sociali, capace di facilitare quella specie di immersione in un altro idioma quasi involontaria, fattore chiave, si dice, per padroneggiare una nuova lingua. In Olanda si vede bene quanto l’esposizione sia totale, con picchi soprattutto ad Amsterdam – e lo sanno bene schiere di immigrati che lì vivono da anni ma arrivano magari giusto a pronunciare un indirizzo o ordinare al ristorante -, mentre è meno marcata in città più piccole o meno centrali. Secondo uno studio dell’Istituto di Ricerca Sociale olandese uscito in giugno, per l’85% dei cittadini dei Paesi Bassi, è la lingua il primo tratto che definisce l’identità nazionale. Ma allo stesso tempo, è dato quasi per assodato che ci si possa parlare in inglese.

È difficile certo riportare un sistema che si alimenta da anni, alla situazione italiana; paragonarli ingiusto, doloroso quasi, basandosi anche sui “freddi” dati dei test Invalsi 2019 che descrivono una situazione delle conoscenze degli studenti preoccupante. Triste rendersi conto, su tutto, del gap tra i livelli di comprensione dell’inglese raggiunti sia lungo lo stivale che confrontati a quelli di chi vive oltre confine.

Proprio davanti a queste evidenze ha senso chiedersi quanto una tale arretratezza possa essere pericolosa proprio, per esempio, in tema di competitività generale degli italiani. L’Italia resta un Paese sempre più vecchio, dalla natalità in continuo calo e, oggettivamente, non sempre pronto ad affrontare il mercato mondiale e le altre nazioni che vi si affacciano, magari piccole però agguerritissime. Sacche di eccellenza a parte (purtroppo le offerte sono spesso troppo sparse e a pagamento, quindi non sufficientemente diffuse o accessibili), non sembra che le cose stiano migliorando.

Un esempio recente è la “battaglia” chiusasi nel 2018 con una sentenza del Consiglio di Stato che ha portato allo stop di percorsi di istruzione superiore totalmente in inglese del Politecnico di Milano. Ingiusta questa proposta, si sosteneva, perché discriminatoria per chi non conosce la lingua di Albione. Ironica, però, la situazione che rimarca le debolezze dell’insegnamento durante la scuola dell’obbligo, negli anni in cui, cioè, si dovrebbero gettare le basi per preparare i ragazzi al futuro e farlo in modo democratico, garantendo quindi un’offerta aggiornata ai tempi, gratuita o almeno economica e per tutti.