Se si dovesse andare alle elezioni, c’è una cosa che le donne che intendono candidarsi devono sapere: in caso di successo elettorale, la loro probabilità di divorziare raddoppia (a parità di altre condizioni).
Ce lo insegna una ricerca appena pubblicata sull’American Economic Review (2018) che analizza le probabilità di divorziare di uomini e donne che si candidano alla carica di sindaco o di parlamentare, in Svezia.
La Svezia è una delle società più egualitarie dal punto di vista del genere. In Svezia, già da trent’anni, il tasso di istruzione delle donne ha superato quello degli uomini, e la partecipazione femminile al mercato del lavoro ha raggiunto un livello simile a quello maschile. Inoltre, la quota di donne in posizione apicale è tra le più alte al mondo, e le politiche di conciliazione e condivisione che accompagnano la doppia presenza, come la disponibilità di asili a basso costo e i congedi parentali fruiti da entrambi i coniugi, sono molto diffuse. Infine, gli svedesi, sia uomini che donne, mettono la famiglia al primo posto delle priorità per la qualità della vita, e, contrariamente a quanto si potrebbe credere, il tasso di matrimoni in Svezia è attualmente il più alto dell’UE.
Eppure, anche in Svezia, le donne devono sostenere un costo in più, rispetto a quello degli uomini, per arrivare al potere: i dati mostrano infatti l’esistenza di un conflitto tra rapporto matrimoniale e partecipazione politica, ma questo trade-off emerge solo per la componente femminile, non per quella maschile.
Figura 1. Probabilità di restare sposati nelle coppie a doppio reddito prima e dopo le elezioni per sesso e risultato elettorale. La linea nera indica coloro che sono stati eletti; la linea grigia indica coloro che non sono stati eletti. (Fonte: Olle Folke e Johanna Rickne 2019)
I grafici qui sopra mostrano ciò che accade alle coppie quando uno dei due partner si candida alla carica di sindaco o di parlamentare. Quando è la donna che tenta l’impresa, e riesce nell’intento, vedrà raddoppiare la sua probabilità di divorziare nel quinquennio successivo alla sua elezione (rispetto al livello di probabilità di divorziare precedente alla sua candidatura). Se però esce sconfitta dalla competizione elettorale, il divorzio è molto meno probabile (sembra che i mariti non perdonino il successo, ma per i fallimenti non c’è problema). Quando invece è l’uomo che si candida, la situazione è rovesciata: il successo elettorale riduce la sua probabilità di divorziare nel periodo successivo, ma, se non vince, la sconfitta elettorale farà aumentare la sua probabilità di divorzio (sembra che per le mogli l’insuccesso sia un problema).
Gli autori della ricerca si domandano perché mai il successo elettorale delle donne (ma non quello degli uomini) destabilizzi il loro matrimonio, e trovano una possibile spiegazione nell’ambito dell’Economia dell’identità (George Akerlof e Rachel Kranton 2010). Questo filone di letteratura riconosce la rilevanza del condizionamento degli stereotipi anche in contesti di scelta razionale; le preferenze degli agenti economici, infatti, non si riferiscono solo a beni e servizi, ma comprendono anche le norme sociali su come le persone dovrebbero comportarsi, e poiché tali norme contribuiscono a definire l’identità degli individui, devono entrare, di conseguenza, nella definizione della loro funzione di utilità.
La rilevanza di questa estensione della funzione di utilità (che include l’identità e la consapevolezza di sé) è ben illustrata dai risultati di Marianne Bertrand, Emir Kamenica and Jessica Pan (2015) sulle conseguenze dello stereotipo per cui “una moglie non dovrebbe guadagnare più del marito”. Gli autori studiano gli effetti della violazione di questa prescrizione sulla divisione del lavoro tra i coniugi, e trovano che le coppie in cui ciò accade sono meno felici (hanno indici di soddisfazione più bassi) e hanno maggiori probabilità di divorziare delle coppie tradizionali, in cui è il marito che percepisce la retribuzione maggiore. Ma soprattutto, analizzando l’uso del tempo di uomini e donne, gli autori di questa ricerca trovano che la differenza di genere nel carico di lavoro domestico è maggiore, e non minore, quando la moglie guadagna più del marito, perché le donne cercano, così facendo, di evitare che la violazione della norma si ripercuota sulla stabilità del loro matrimonio.
In tale contesto, è compito della politica economica governare la struttura degli incentivi (cioè la consistenza dei costi e dei benefici associati alle diverse alternative) al fine di ottimizzare la divisione del lavoro di genere tra produzione familiare e produzione per il mercato. L’ineguale ripartizione del lavoro tra i sessi attualmente osservata ostacola infatti l’allocazione ottimale di una risorsa scarsa e preziosa in ogni contesto sociale rilevante: il talento (o abilità innata, o intelligenza) di cui ciascun agente economico è naturalmente e specificamente dotato. Ciò accade ogni volta che l’allocazione ottimale del tempo entra in conflitto con l’allocazione ottimale dell’intelligenza, generando in tal modo un prodotto effettivo minore di quello potenziale (Kevin Murphy, Andrei Shleifer e Robert Vishny 1991).
La soluzione per eliminare questo costo sociale è facile, a dirsi. Quando la divisione del lavoro nelle coppie è più paritaria, e le responsabilità del lavoro familiare e di cura sono più condivise, la situazione è nettamente migliore. Ad esempio, i dati della ricerca di Olle Folke e Johanna Rickne 2019 mostrano che l’effetto del successo elettorale sul divorzio svanisce nelle coppie in cui il marito usufruisce di una quota del congedo parentale maggiore di quello della moglie[1].
[1] – In Svezia il congedo parentale copre 480 giorni per figlio, 390 dei quali con retribuzione pari all’80%.