Magistratura, imparare l’imparzialità è difficile ma lo dobbiamo al popolo italiano

Statue of justice

Il pensiero della differenza di genere ci ha insegnato che essere un uomo o una donna, in qualsiasi contesto, non è un dato neutro. E’ l’unico dato, originario, con cui facciamo i conti, da quando nasciamo a quando muoriamo. Anzi, che ci portiamo oltre, anche nella memoria altrui. L’essere stati noiosi, neri, bianchi, coraggiosi, arroganti, omosessuali, sposati, corrotti finisce con il nostro corpo. Quel che resta, imperituro, è il nostro nome al maschile o al femminile.

Appartenere ad un genere segna la storia di una vita, di un progetto, di un modo di essere, di un’aspettativa sociale, di un ingabbiamento culturale, di un destino familiare.
Il celeste è dei maschi, il rosa è delle femmine. E’ così e basta. Nessuna speranza di cambiamento. Il sistema simbolico, fatto di regole e tradizioni, deve prevalere sul gusto personale per i colori e sulla costruzione di un’identità libera. L’individuo fa retrocedere i propri desideri e resta prigioniero, senza sapere neanche perché, del guinzaglio costruito da altri, per altri.

Attraversare le strade della propria città per andare a scuola, sin da piccoli, e ritrovare i nomi del proprio genere scritti sul travertino bianco nei muri trasmette modelli. Se sei un bimbo leggi ogni giorno che ti aspettano grandi imprese, grandi scoperte, grandi viaggi e grandi rivoluzioni. E’ un’operazione culturale e politica, sottile e continua, quella di stabilire i criteri della celebrità. Se sei una bimba la toponomastica della tua città ti suggerirà di diventare Santa o Regina, altrimenti non esisterai, perché altre tracce di te, del tuo genere, non ci sono.

Il genere femminile non si nomina e non si rappresenta. E ciò che non si nomina e non si rappresenta non esiste, anche se c’è. A partire dai nomi delle nostre piazze, delle nostre scuole, delle nostre caserme, dei nostri monumenti, delle nostre aule. Tutto è volto al maschile da quando nasciamo perché il maschile si nomina ed è onnicomprensivo, include il femminile. Il femminile, invece, vale per quello che è, non comprende altro. E la lingua, lungi dall’essere neutrale, manifesta un rapporto di potere, esprime ed influenza significativamente i sistemi simbolici di chi parla, di chi ascolta.

Tutto questo intride ognuna delle filature e delle pieghe della nostra toga. Se l’appartenenza a un genere ha una ricaduta immediata, anche inconsapevole, su ogni atto del nostro esistere, non puo’ di certo esserne estraneo il momento della valutazione, dell’interpretazione, del giudizio che invece ne è coinvolto, avvolto e travolto.Nell’ambito giuridico ed istituzionale; nell’esercizio della nostra funzione che si connota costituzionalmente per imparzialità, terzietà ed indipendenza, e nella riconoscibilità esterna del nostro operato, ammettere che essere uomini o donne gioca un ruolo nelle decisioni che assumiamo è ritenuto un pericolo capace di destabilizzare il senso stesso dello ius dicere.

I PREGIUDIZI NON RESTANO FUORI DALLE AULE DI GIUSTIZIA

E’un tema complesso, scivoloso, scomodo, denso di contraddizioni e ricadute, pericoloso, che fa temere di guardarlo, tanto da generare una sorta di rimozione collettiva. Ma questa magistratura, quella che si trova davanti alla sfida epocale dei diritti del nuovo millennio, non può usare la benda della giustizia per la paura di guardare quello che solo apparentemente resta fuori dalle aule di giustizia:
– i modelli familiari in cui ogni donna dedica 36 ore la settimana ai lavori domestici, mentre gli uomini non vanno oltre le 14, con un divario che supera di tanto quello di tutti i Paesi industrializzati;
– il silenzio dei libri di scuola e dei progetti educativi sulla storia e il pensiero delle donne;
– lo stereotipo femminile e maschile, immediatamente leggibile e rassicurante per il pubblico-consumatore, offerto quotidianamente dalla pubblicità e dai mass media (come le starlette appese ad un gancio da macellaio vicino al prosciutto, prima che venga loro impresso un marchio di qualità sulle natiche, raccontato da Lorella Zanardo o il dato offerto dalla ex Presidente della Camera dei Deputati che «Solo il 2% delle donne in televisione parla. Il resto è muto, spesso svestito, non ha modo di esprimere un’opinione»);
l’identificazione nel linguaggio del femminile con il maschile, contro ogni regola linguistica;
il conio di nuovi termini, come il femminicidio, indispendabili per descrivere una categoria criminologica e socio-antropologica in cui la violenza maschile sulle donne, nelle sue forme più estreme, nasce in un contesto strutturale (e non estemporaneo o emergenziale) di discriminazione di genere, trasversale ad ogni cultura e ad ogni censo;
l’assenza imbarazzante dai luoghi di effettivo esercizio del potere e di rappresentanza (nel report del World Economic Forum sul Gender Gap l’ Italia si conferma in una posizione bassa della classifica generale, collocandosi all’82esimo posto sui 144 Paesi del mondo, dopo Messico e Madagascar), a cominciare dalla presenza femminile nel Consiglio Superiore della Magistratura.

Insomma chi entra in un’aula di giustizia, sia che indossi una toga, sia che abbia le manette ai polsi, è figlio/figlia di tutto questo. Il pregiudizio di genere, e con esso gli stereotipi che lo rendono sempre più granitico, ognuno di noi lo beve dal giorno della propria nascita e troppo spesso non lo sa. Non lo vede. Celeste e rosa.

Per arrivare al traguardo difficile, sofferto e dovuto, dell’imparzialità della giurisdizione, unico a consentire di ottenere un giudizio che si possa definire tale, è necessario riconoscere e superare il pregiudizio di genere che è radicato in ognuno di noi, uomini e donne di questa magistratura in quanto uomini e donne di questo Paese.
La consapevolezza di essere vittime del pregiudizio di genere non vuol dire essere parziali, ma vuol dire essere consapevoli del proprio limite umano dell’appartenere ad un contesto sociale, culturale, economico, religioso, familiare, geografico nel quale il pregiudizio è radicato come un’erba infestante e che costituisce il retroterra con il quale ciascuno di noi entra in magistratura e che la toga, solo indossandola, non può eliminare.

L’imparzialità non è la neutralità rispetto alla vita, rispetto alle cose, rispetto alle scelte e men che meno rispetto alle parti processuali, ma è un percorso culturale complesso che richiede cultura, scavo, studio e decostruzione del pregiudizio di genere che si annida in ognuno di noi. E’ lo sforzo quotidiano di indossare le lenti di genere e non dare nulla per scontato di quello che accade intorno a noi, di chi abbiamo davanti a noi.

GUARDIAMO ALLA VIOLENZA SULLE DONNE PER QUELLO CHE E’

Quelle lenti di genere che non ha indossato in un processo per stupro il collegio di una Corte di Appello quando, alcuni anni fa, dopo avere ritenuto attendibile il racconto di una donna che era stata costretta a masturbare un uomo, annullava la sentenza di condanna scrivendo che “non può tuttavia escludersi più di un ragionevole dubbio circa la esatta percezione, da parte dell’imputato, di un chiaro ed inequivocabile dissenso della donna dinnanzi alla sua condotta di approccio sessuale, non caratterizzata da modalità costrittive o minacciose e neppure tali da poter essere qualificate come subdole, inaspettate e veloci…. Sebbene un comportamento sostanzialmente remissivo, le motivazioni del quale, come spiegate dalla donna,…. sono comunque pacificamente rimaste interne al suo animo, nonché disancorate da qualunque riscontro esterno nella condotta oggettivamente tenuta dall’imputato….”.

Curioso e purtroppo assai diffuso argomentare. Ma alla vittima di una rapina si chiede se ha manifestato con chiarezza il proprio dissenso e perché non ha reagito ? Se quella Corte avesse indossato le lenti di genere, cioè avesse valutato a fondo cosa differenzia l’uomo dalla donna e la storia che ciascuno porta pesantemente sopra le proprie spalle, saprebbe che le donne davanti ad uno stupro, davanti ad un approccio sessuale, davanti ad un maltrattamento restano spesso immobilizzate dal terrore. Lo dicono ricerche scientifiche accreditate. E non c’è mai nessuno accanto a testimoniare. Non urlano. Non scappano. Restano inchiodate davanti a millenni di silenziosa accettazione del sopruso, come è stato loro insegnato da sempre. Con il rosa dei nostri fiocchi, con le sante delle nostre piazze, con il silenzio dei nostri libri e della nostra lingua.

Io invece lo so, le mie colleghe invece lo sanno. L’organizzazione Mondiale della Sanità sulla base del rapporto sviluppato dalla London School of Hygiene & Tropical Medicine e dalla South African Research Council nel 2013 ha documentato che la violenza, per le donne tra 16 e 44 anni, è la prima causa di morte e di invalidità permanente; il 35% ha subito violenze sessuali o fisica durante la vita e 9 vittime su 10 di stupro sono donne e il 99,9 % degli autori sono uomini.

Di particolare interesse sono i dati degli abusi sessuali su donne dai 15 anni in su scorporati per regioni del mondo: Africa 45,6%, America (sud, centro e nord) 36,1%, Ovest del Pacifico (Australia, Cina, Giappone, Filippine, Vietnam, eccetera) 27,9%, Europa 27,2%. Non è una questione di oggi. Secondo lo US Senate Judiciary Committee negli Stati Uniti nell’anno 1989 le donne stuprate erano più di tutti i marines feriti nella Seconda guerra mondiale.

Veniamo in Italia. Nell’ultima indagine ISTAT, pubblicata il 25 novembre del 2017, risulta che 8 milioni e 816mila donne fra i 14 e i 65 anni, cioè il 43,6%, nel corso della vita hanno subito qualche forma di molestia sessuale e si stima che siano 3 milioni 118mila le donne (15,4%) che le hanno subite negli ultimi tre anni. 1 milione e 157mila donne in Italia sono state vittime sia di stupro (652mila casi) che di tentato stupro (746mila casi) commessi da italiani in oltre l’80% dei casi (81,6%) e da stranieri in circa il 15 per cento dei casi (15,1%); per il 62,7% dal partner o ex partner. Ma sono le donne straniere a subire le forme più gravi di violenza sessuale; lo stupratore è un connazionale una volta su due, esclusi i casi meno gravi di violenza e molestie in cui l’autore è prevalentemente italiano (61,7 % dei casi). Secondo la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere, negli ultimi 6 anni c’è stata una riduzione delle denunce dei delitti di violenza sessuale del 12% circa. Non è un dato positivo, perché spesso è la cartina di tornasole della sfiducia nei confronti delle forze dell’ordine e del sistema giudiziario.

I NUMERI DELLE VIOLENZE TACIUTE

Nell’anno 2014 non ha denunciato lo stupro subìto il 92,5 % delle vittime. Nell’anno 2015 gli autori adulti indagati dalle Procure della repubblica italiane per violenza sessuale sono stati 5.886, di questi hanno dovuto affrontare un giudizio 3.094, cioè il 52,6 %, mentre sono stati archiviati, cioè rimasti senza alcun vaglio processuale, 2.792 casi. Nell’anno 2016 le sentenze definitive di condanna per violenza sessuale in Italia sono state 1.419 nel 98,9% di casi gli autori sono uomini e la gran parte italiani.

Allora, facendo i conti, possiamo così sintetizzare il livello di impunità per questo reato: le denunce per violenza sessuale sono poco più del 7%, di queste la metà viene archiviata; resta quindi solo il 3,5 % che affronta un lungo e sofferto processo che nel 50 % porta ad assoluzioni e nell’altro 50% a condanne ed in cui tuttora le donne sono messe alle strette e devono dimostrare di avere reagito e urlato al momento della violenza.

La magistratura ha qualcosa da dire su questo dato ? Per non parlare dei reati di violenza in famiglia in cui si leggono ancora sentenze in cui gli imputati vengono assolti con motivi come questi: “non è trascurabile la circostanza riferita dalla persona offesa di avere avuto un mancamento alla sola vista del marito dopo avere notato la presenza dell’uomo all’uscita dell’ospedale: tale circostanza infatti avvalora la tendenza della donna a porsi nella condizione di procurarsi delle lesioni.” ?

La domanda che oggi ogni magistrato o magistrata, giornalista, insegnante, poliziotto, artigiano, casalinga, imprenditore, attrice, autista, regista, politico, intellettuale, manovale, sindacalista deve doverosamente porsi è : io dov’ero quando si consumava la violenza maschile su un terzo delle donne che mi sono accanto (dati Istat 2017) ?

In realtà c’ero, ma non l’ho voluta vedere nella storia della mia collega che si è licenziata per non tollerare le mani addosso del suo direttore che tutti definivano solo un burlone; della mia vicina di casa che ho sentito urlare nella notte AIUTO, ma mi sono girata dall’altra parte del letto dicendomi che a me non succederà mai; della mia amica a cui ho fatto intendere che rinunciare al proprio lavoro per la gelosia del compagno è un atto di affetto; di mia figlia a cui ho detto di essere paziente per amore dei suoi bambini perché suo marito che la picchia quasi tutti i giorni di certo cambierà; della vittima del mio processo a cui non ho creduto perché si sta separando e dunque strumentalizza quella denuncia, chissà per quali interessi, dopo essere rimasta per 20 anni accanto a quell’uomo violento; della ragazzina violentata dal compagno di scuola perché comunque poteva evitare di uscire così truccata e ubriacarsi.

Alle donne non si perdona la libertà, anche quella di uscire la sera.

Nei reati di violenza maschile “l’imputata” è la vittima, è in qualche modo “colpevole”, con una inammissibile inversione dei ruoli processuali. E’ ancora così, in tutto il mondo. Le domande intrusive, le valutazioni stringenti di credibilità, l’accusa di non essersi messa in salvo accettando il pericolo, l’accertamento pedante della ragionevolezza di tutti i passaggi della sua memoria e del suo racconto, sono tutte drammatiche prerogative di spettanza delle donne. Gli uomini, gli autori di questi reati, restano sempre sullo sfondo, al più minimo della pena e attenuanti generiche.

Insomma c’è un apparato invisibile, che crea il pregiudizio verso le donne che subiscono violenza e giustifica gli uomini che la esercitano ed è un apparto che entra nelle aule dei tribunali attraverso i testimoni, i poliziotti, le vittime, gli imputati, gli avvocati, i giudici. Facciamo persino fatica a rendercene conto. E’ una forma di conoscenza del reale automatica, una scorciatoia facile da comprendere per tutti.
Quello in cui viviamo è un universo in cui l’asservimento femminile è dovuto, atteso da tutti in ogni contesto, dalla famiglia al luogo di lavoro. Viene sacralizzato per renderlo indolore. Quella delle donne è una missione da adempiere quotidianamente con atti eroici di altruismo verso genitori, figli, mariti, tranne che verso sé stesse. Questo impariamo dal giorno della nascita. Se non siamo così paghiamo un prezzo immenso: il ripudio sociale.

Le donne non denunciano perché il contesto in cui vivono impone di pensare, senza che ci si accorga di questa orrenda gabbia, che la loro dignità, il loro corpo e la loro libertà non valgono nulla, che chi le viola resterà impunito e temono di non essere credute. Tutto ciò che denunciano le donne viene minimizzato, mortificato, reso uno scherzo o una momentanea esagerazione. E’un problema culturale che interroga tutti, a partire dalle penose barzellette sulle donne che impegnano le liste WhatsApp di ognuno di noi. Chi protesta, chi reagisce, diventa pesante, la solita noiosa femminista arrabbiata. Parte da qui il silenzio mortifero del 90% delle vittime di violenza maschile, non è questione che si risolve in un’aula di giustizia.

Il compito istituzionale della magistratura, però, in questo magma incandescente fatto di stereotipi, rassegnazione e impunità, è assai complesso. La parola che pronuncia un giudice/una giudice è una parola che, come scrive il sociologo francese Pierre Bourdieu, è una parola autorizzata, parola pubblica, ufficiale che si enuncia in nome di tutti e nei confronti di tutti, insomma fissa il modello delle relazioni umane, determina un ordine, replica o decostruisce il pregiudizio su cui quel modello o quell’ordine è radicato.

Una responsabilità enorme. Imparare l’imparzialità è affare difficile, non sempre lo facciamo perché impone di mettersi in discussione, oltre toga e codici. Imparziali non si nasce, si diventa. Ed è dura, molto dura, ma lo dobbiamo al popolo italiano, composto da uomini e donne con le loro individualità non stereotipate, in nome del quale ogni giorno amministriamo giustizia nel nostro Paese.