Siamo proprio sicuri che “prima gli italiani” ci convenga?

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Io vivo da così tanto accanto a gente di tutti i colori che non riesco neanche più a ricordarmi come fosse prima. Alle medie avevamo in classe un solo ragazzo di origine straniera, John Colombo si chiamava. Se ne stava sempre zitto, come fosse finito lì per una qualche forma di stregoneria. Era indiano ed era stato adottato. Ci guardava come dei marziani e noi facevamo lo stesso con lui. Parlava italiano a fatica e in più era schivo di suo. A volte è persino uscito con noi o è venuto a giocare a calcio, anche se era una pippa di proporzioni cosmiche. Credo abbia fatto non più di un paio di sorrisi e biascicato un paio di frasi in tre anni. Nessuno gli ha mai detto bè per il colore della sua pelle, così come nessuno ha mai sentito il bisogno di essergli particolarmente solidale o esprimergli fratellanza o sorellanza o qualsiasi altra forma di quella esibita solidarietà con la quale i bianchi progressisti amano approcciarsi alle genti di colore e di provenienza diversi. Lui era in classe con noi e fine della storia.

Oggi, nelle classi che frequentano le mie figlie, di John Colombo ce ne sono a bizzeffe, a volte sono pure in schiacciante maggioranza. E non stanno mai zitti. La mia figlia grande ha avuto molte amiche e molti amici col colore della pelle diverso dalla sua, e francamente credo che per lei oggi colore della pelle e colore dei capelli pari siano. La mia figlia piccola cresce in mezzo a bambini di origine araba, cinese, sudamericana e africana e non mi ha mai fatto nessuna domanda di nessun tipo sul perché uno è così e l’altro è cosà.

Quando l’anno scorso chiesi loro di accompagnarmi alla grande manifestazione milanese “Insieme senza muri”, semplicemente non capivano la cosa. “In che senso?”, mi chiedeva la più grande. Alla fine sono venute per fare un piacere a me, ma non hanno minimamente percepito l’urgenza dell’iniziativa, essendo nate e cresciute in mezzo a gente di qualsivoglia colore e non riuscendo minimamente a capire come potesse essere diverso da così.

Tra genitori è un altro paio di maniche, ovviamente. Spesso avere un dialogo è un discreto casino per il semplice fatto che nessuno ha tanto tempo e tanta voglia di mettersi a fraternizzare con persone che non parlano fluentemente la tua stessa lingua. Siamo milanesi, in fondo, abbiamo fretta. E – credetemi – anche i milanesi di origine straniera non è che muoiono dalla voglia di gettarci le braccia al collo e diventare nostri migliori amici. Spesso fanno lavori umili, malpagati e molto meno gratificanti dei nostri (sempre ammesso che quelli che facciamo noi lo siamo, cosa della quale è assolutamente lecito dubitare). Aggiungeteci che i nomi – quando pietosamente non se li italianizzano – sono difficili da pronunciare e ancora più difficili da memorizzare e avrete un quadro abbastanza preciso della situazione.

Quando, tra adulti espansivi di etnie diverse, abbiamo provato ad avvicinarci un po’ non ha funzionato sempre a meraviglia: io e Josè per esempio organizzammo due epiche partite di calcio Ecuador-Italia ma – dopo un po’ – alcuni italiani hanno deciso che poteva bastare, per il semplice fatto che i sudamericani interpretano il gioco in maniera un po’ diversa da come siamo abituati noi. Quelli arrivano con le casse di birra e quando giocano “picchiano” come fabbri. Noi siamo – come dire? – un po’ più fighetti e se le entrate diventano troppo maschie scatta subito il “oh, mica son venuto qui per farmi male”.
Una volta poi ho portato mia figlia piccola alla festa di un’amichetta boliviana e devo dire che non sono molto riuscito a entrare nel mood del ritrovo: i maschi tutti da una parte a grigliare e bere birra e le donne tutte dall’altra a mangiare come se non ci fosse un domani e a raccontarsi la qualunque. E io? Boh, un po’ tagliato fuori, tanto più che non parlo neanche lo spagnolo.

Insomma, finché si tratta di lasciarsi i bambini gli uni in casa degli altri va tutto bene, basta che poi non si pretenda anche di diventare amici tra genitori, che è francamente un bello sbattimento sia per noi sia per loro. E quindi è tutto un po’ così dalle mie parti: gli asiatici fanno fatica a rivolgerti la parola, le donne col velo manco ti guardano, gli africani stanno per conto loro, i sudamericani non parliamone proprio e ognuno – se mi passate il francesismo – si fa i caxxi suoi alla stragrandissima. Ne consegue che sì, ovviamente ho tanti rapporti cordiali con tanta gente di origine straniera ma no, non ho nessun vero amico che ha la pelle diversa dalla mia, e talvolta non posso non avvertire la distanza siderale, e a volte persino la diffidenza, che esiste tra persone adulte di etnia altra che si ritrovano, più o meno volontariamente, a condividere una stessa porzione di territorio. Troppo diversi e recenti i percorsi che ci hanno condotto in quello stesso punto.

Però sai cosa? Io sono uno che finisce sempre per affezionarsi alle cose che ha e a quello che gli si muove intorno. E qui dove vivo io, ovunque vado, a qualunque ora del giorno e della notte, che porti le bambine a scuola, che vada a camminare lungo la Martesana o che entri in qualche negozio per comprare questo o quello, mi trovo in mezzo a milanesi di tutti i colori possibili e immaginabili. Ho visto i loro figli crescere coi nostri e li sento parlare la nostra lingua come i loro genitori non faranno mai e talvolta persino meglio di noi (o perlomeno con la cadenza milanese più pronunciata).

Viviamo insieme e, vivaiddio, non ci siamo mai fatti del male e non ci siamo mai mancati di rispetto. Nella peggiore delle ipotesi ci siamo semplicemente ignorati, limitandoci a vivere, abitare e girare per il quartiere senza pestarci i piedi a vicenda. Esattamente come facevo da giovane, nel quartiere tutto italiano in cui sono cresciuto, con gli italiani che lo abitavano. Una cosa che quindi faccio sinceramente fatica a capire è: perché mai dovrei rimpiangere i tempi in cui si conviveva ignorandosi tra italiani rispetto a questi in cui si convive ignorandosi tra italiani e non?

A me piace sentirmi al sicuro nel quartiere in cui abito e, se proprio devo dire la verità, mi sento più al sicuro oggi, nella zona a dir poco multietnica in cui sono ora di quanto mi sentissi in quella total white da cui provengo. Per carità, probabilmente dipende dal fatto che ora sono adulto e allora ero ragazzino, però secondo me c’entra anche un po’ il fatto che la diversità non mi fa più paura, perché ci vivo immerso dentro tutti i giorni.
Mi spiego meglio e poi la faccio finita, ché non so se sto riuscendo a spiegarmi bene.
Nel quartiere figo dove abitavo da bambino (De Angeli-Frua in Milano) c’era un campetto abbandonato e circondato da inferriate. I ragazzi del quartiere avevano allargato un paio di sbarre in modo da potersi intrufolare dentro impunemente e col tempo il “campetto” era diventato il nostro campo da calcio “rionale”, diciamo così, invidiato da tutti. Tanto che talvolta un gruppo di ragazzini “tamarri” di un quartiere più periferico lo invadeva, a caccia di spazi giocabili. Sapete come li chiamavamo ‘sti ragazzini? i “Terroni”. E sapete che sentimento provavamo nei loro confronti ? il Terrore. Quando arrivavano i “terroni” noi scappavamo in preda al panico. Ricordo che una volta, non riuscii a mettermi in salvo in tempo e fui costretto nientemeno che a giocare a pallone con loro! Giocai malissimo ovviamente, avendo gli arti inferiori paralizzati dalla paura.

Questo ricordo così tenero e ridicolo mi fa capire ancora oggi quanto possa essere assurda, profonda, irrazionale e ancestrale la paura dell’altro. In quegli anni settanta ci facevano paura un gruppo di ragazzini meridionali provenienti da quartieri non belli e pettinati come il nostro. E noi, molto semplicemente, non volevamo condividere il “nostro” campetto con loro.

Oggi condivido una scuola e un quartiere intero con i “barbari invasori”, le mie figlie crescono con i loro e le mie vite si intrecciano quotidianamente con le loro. E non posso che sorridere sentendo i latrati di coloro che provano fastidio o diffidenza per questa gente così come sorrido della paura che mi facevano i famigerati “terroni” che assaltavano il nostro campetto, per giocare a pallone senza chiedere permesso. Perché funziona un po’ così, se ci fate caso: tutte le volte che le persone non si fanno la guerra (che è quella cosa per cui uno tenta di eliminarti fisicamente, cacciarti da dove ti trovi o ridurti in suo potere), si fanno la pace. Tertium non datur. Io e le persone di origine straniera con cui abito il mio quartiere ci stiamo facendo la pace da decenni ormai. Magari non abbiamo ancora imparato ad amarci ma di sicuro non abbiamo mai cominciato a odiarci, almeno finora.
Chissà cosa succederebbe se tutto a un tratto, qualcuno decidesse che mia figlia debba venire prima della loro. Che io debba venire prima di loro. Che persone che abitano una accanto all’altra debbano essere considerate in modo diverso a seconda della provenienza o del censo.

Chissà se continueremmo a farci la pace come facciamo ora. Io sinceramente credo di no. E visto che a questa cosa ci vivo in mezzo, permettetemi di dire che segnali come quelli provenienti da Lodi o da Riace mi fanno venire i brividi lungo la schiena. Tipo quando arrivavano i “terroni” al campetto sotto casa. Solo che oggi i “terroni” sono prevalentemente settentrionali.

  • Chiara Stagni |

    Che dire….perfetto! Parola di un’insegnante di una classe multietnica

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