Qualche giorno fa, mentre attendevo il mio turno incolonnata in auto, di ritorno dal lavoro, mi sono ritrovata ad ascoltare un’intervista di Sebastiano Barisoni a Paolo Crepet. L’argomento era incentrato sui figli, la scuola, l’educazione, la dedizione ed il sacrificio, il merito e l’elite.
La sera, dopo aver sistemato la casa, preparato la colazione ed il pranzo per l’indomani ed aver messo a letto la bimba, ne ho parlato a mio marito. Lui, seduto in poltrona, ed io sul divano. Ho ragionato all’educazione che avevo ricevuto da bambina ed a come i miei genitori mi abbiano insegnato il sacrificio con leggerezza, senza farmelo pesare. Io, adolescente, non vestivo Best Company, non indossavo le Timberland e nemmeno ne sentivo il bisogno.
Poi sono passata al concetto di merito e lì mi sono bloccata. Pur ottenendo pacche sulle spalle e dimostrazioni di stima, di fatto, non ho mai fatto carriera. Sono ancora lì ferma, bancaria che ha percorso i vari ruoli senza mai spiccare effettivamente il volo. Certo, molto ha giocato la timidezza con cui ho convissuto nei miei primi 35 anni di vita (quasi rabbrividisco a pensarci) che mi ha impedito di cogliere le disparate occasioni che mi si sono presentate davanti. Per ognuna di esse ho una spiegazione del mio tirarmi indietro (forse è meglio dire una scusa). E mi ritrovo, ora, con un lavoro che non mi dispiace ma che digerisco perché so che frutto di scelte mie. Se potessi tornare indietro, l’antifona sarebbe diversa. Il dottorato e magari un lavoro all’ONU. Ma, visto che non è possibile, mi sono domandata cosa penserà mia figlia della propria madre Non sono una ricercatrice, né un medico o un avvocato. Solo una semplice impiegata.
Così ho detto a mio marito.
E di nuovo mi sono bloccata. Perché alla fine ho ricondotto il concetto di merito e di successo solo alla vita lavorativa. Ed è un clamoroso autogol per noi stessi. Abbiamo iniziato un gioco: enumerare i nostri successi. E ci siamo accorti che l’elenco non è irrisorio. Prima tra tutti l’essere ancora insieme ed essere felici della scelta. Poi i piccoli successi personali. Il premio conferitomi dalla Croce Rossa per la tesi universitaria con tanto di cerimonia e incontro con il professor Condorelli (un mito all’epoca), poi il romanzo che ho pubblicato (presso una piccola casa editrice, non a pagamento e con editing – poche copie vendute, ma non importa), il suo primo posto ad un concorso fotografico internazionale (forse ha avuto fortuna perché era il primo anno), la sua mostra di quadri, la mostra fotografica, le decine di concerti a cui abbiamo partecipato, i nostri viaggi squattrinati per il mondo (zaino in spalla e solo biglietto aereo), il respirare nuove culture, parlare con la gente, vivere mille avventure, essere cittadini del mondo. Arredare la nostra casa con cimeli di tutto il mondo, in uno stile un po’ kitsch ma comunque nostro. Ed avere ancora mille progetti in testa. Un nuovo libro da scrivere, una lingua da imparare, un progetto creativo in mente. Non sentirsi vecchi ma essere ancora esuberanti. Educare nostra figlia alla vita, a renderla autonoma e consapevole, nella speranza che le brutture del mondo non la sopraffacciano. Abbiamo vissuto quarant’anni, ricchi ed intesi. Ciò mi rincuora e nello stesso tempo mi rattrista. Perché il concetto di merito e di successo oggi è manipolato e deformato, misurato solo sul concetto di carriera e, conseguentemente, di potere. Perché la pienezza della persona viene svuotata solo al ruolo che ricopre. Io stessa ne sono vittima. Mi sono misurata solo in quel “non spiccare il volo” e nel “ormai è troppo tardi”. Mi sono domandata cosa racconterà alle amiche mia figlia della propria madre. Non sono una ricercatrice, né un medico o un avvocato. Solo un’impiegata che digerisce il proprio lavoro e che, nonostante tutto, si applica con devozione.
Penserà che non ho avuto alcun merito? Come mi giudicherà? Sarò in grado di insegnarle che il successo non dipende necessariamente dal lavoro? Sarò in grado di fissarlo io stessa, come un mantra quotidiano, o ricadrò nelle vecchie abitudini? Sarebbe ipocrita dare una risposta definitiva, perché la quotidianità ed i messaggi a cui siamo sottoposti spesso ci travolgono, non lasciandoci scampo. L’unica cosa che mi dà speranza è l’aver tracciato il contorno a quel disagio con cui ho convissuto negli ultimi anni. Il sentirsi stretti in un mondo con i paraocchi, nel quale la stima e i giudizi sono basati sul posto che occupi. Sul fatto di sentirsi realizzati o falliti se il proprio nome compare o no nell’elenco aziendale delle promozioni. Non che i soldi non siano importanti, intendiamoci. Senza i soldi si fa poco o nulla. E la ricompensa aziendale è certamente fonte di soddisfazione. Ma la follia che ci circonda ci riduce a meri personaggi di una soap opera americana in cui tutto è lustro e soldi, alla fine, ci ridurrà a semplici marionette senza arte né parte. Cara Alley Oop, forse queste poche righe hanno il solo scopo di “fissare” nella mia testa il nuovo mantra. O forse no. Comunque sia, buon viaggio a tutti.
Cristiana