Fare i compiti è diventato un compito da genitori?

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I compiti a casa? Non sono roba per bambini. Anzi, molto spesso sono cose che i bambini (e i ragazzini) da soli non gestiscono. I compiti sono al centro di un dibattito molto acceso e con posizioni molto nette che riguarda la loro utilità o inutilità (ne abbiamo parlato qui: “Basta compiti! E’ davvero la soluzione più giusta?“), ma per quanto riguarda la presenza o assenza dei genitori nelle attività scolastiche da svolgere a casa i toni si fanno più confusi.

action-child-children-79990Possiamo dire che nelle chiacchiere “da parchetto” tra genitori, e in quelle da social, troviamo a grandi linee due schieramenti: chi ha figli in età scolare e chi ha figli in età prescolare (o non ne ha). Tra i primi le discussioni vertono più che altro sul carico dei compiti, sulla difficoltà, sull’utilità o meno, su quella ricerca o su quel tema che è stato difficile… insomma, si entra nel merito e i genitori di bambini delle elementari ma anche di ragazzini delle medie mostrano di conoscere esattamente ciò che i figli fanno. Perché sono seduti accanto ai loro figli, fanno i compiti con loro, se non al posto loro. Non è raro, infatti, che sia una mamma nella chat Whatsapp di classe a chiedere quali siano i compiti per il giorno dopo. Questi genitori, molto coinvolti nella vita scolastica dei figli, raramente mettono in discussione la necessità della loro presenza accanto nel momento dei compiti. A farlo, in genere, è l’altro fronte, cioè chi non ha figli in età scolare o non ne ha. E quindi non ha esperienza diretta sul tema, se non quella che risale alla sua infanzia, tende a giudicare con molta leggerezza: “Ai miei tempi non era così”, ” Nessuno mi ha mai aiutato, figuriamoci! Eppure mi sono laureato” e via dicendo.

Lasciamo da parte per un momento le semplificazioni e proviamo a guardare qualche dato oggettivo. Negli Stati Uniti, sin dagli anni ’60 le politiche per l’educazione hanno spinto molto per il coinvolgimento dei genitori nella vita scolastica dei loro figli. Nel 2001, Il “No Child Left Behind Act” approvato dal Congresso individuava nel maggiore coinvolgimento dei genitori una delle aree su cui lavorare. Nel decennio successivo furono molte le iniziative in questo senso e il ruolo dei genitori cambiò sensibilmente. Le ricerche su questo filone si intensificarono e si raffinarono: una meta analisi del 2008, per esempio, metteva in evidenza qualche primo distinguo: il coinvolgimento dei genitori nella vita scolastica dei figli portava come risultati tangibili un maggior numero di compiti portati a termine, una minore quantità di problemi nello svolgimento dei compiti a casa e migliori performance tra i bambini delle elementari. Dagli studi emergevano però anche altri aspetti: per esempio in termini di risultati si aveva una correlazione positiva con il coinvolgimento dei genitori per la proprietà linguistica ma non per la matematica, e per le scuole elementari e superiori ma non per le medie, con la conclusione che diversi tipi di coinvolgimento potevano portare a siti diversi, migliorativi o peggiorativi per gli alunni, anche a seconda del grado di scuola.

child-girl-homework-1001675Andando avanti, questo tipo di distinguo si fanno sempre più frequenti nelle ricerche, mostrando per esempio (in uno studio del 2014) che quello che funzionava di più era il supporto all’autonomia nello studio, più che il controllo o l’interferenza. Sempre nel 2014 è stata pubblicata una robusta ricerca dall’Harvard University Press che ha misurato gli effetti di oltre 60 tipi di coinvolgimento, mostrando come non sia affatto detto che aiutare i figli nello svolgere i compii a casa corrisponda a un effettivo miglioramento nei risultati scolastici. Esaminando anche elementi come l’importanza della responsabilizzazione, dell’autonomia e della possibilità di un figlio di scegliere quanto far entrare il genitore nella vita scolastica, la ricerca ha mostrato quanto più complesso sia il tema delle nostre chiacchiere “da parchetto” e ha segnato una inversione di tendenza, riportando il genitore alle spalle del figlio, come elemento di guida e sostegno ma lo ha tolto dalla “prima linea” nelle attività scolastiche e dei compiti a casa.

E in Italia? I genitori italiani, a quanto risulta da una ricerca della Varkey Fundation realizzata su scala globale, sono in Europa quelli che passano il maggior numero di ore settimanali con i loro figli per svolgere i compiti: il 25% dei genitori intervistati passa 7 ore o più a svolgere i compiti a casa con i figli, contro il 17% della Spagna, il 14% della Germania e l’11% in Francia e Gran Bretagna. In coda alla classifica la Finlandia (5%). Da notare, che gli italiani risultano anche quelli che danno una maggiore importanza rispetto a tutti gli altri europei all’Università: per il 37% dei genitori è estremamente importante che i loro figli frequentino l’università mentre il 66% dice che è molto importante.

Considerati questi elementi vale la pena fare qualche riflessione e porci qualche domanda. Aiutare i propri figli non significa sostituirsi a loro nello svolgimento dei compiti. Significa considerare sempre di cosa effettivamente hanno bisogno, ma sono loro a doversi interfacciare con la scuola, prendersi la responsabilità del loro percorso. Pur sempre con la sensazione che i genitori sono al loro fianco, per sostenerli. Senza stare al loro posto. Spesso accade però che il successo di un figlio venga vissuto da molti genitori come il proprio, con una competizione poco adatta a un percorso di crescita funzionale. Si tratta di dimostrare agli altri genitori, agli insegnanti il proprio valore, attraverso il proprio figlio o della propria figlia. In questa dinamica, i bambini e le bambine spariscono nella loro unicità, è il genitore che – senza rendersene conto e seppur con le migliori intenzioni – diventa protagonista. Le conseguenze per i figli sono pesanti, perché quello che nasce come un tentativo di aiuta si trasforma in una frustrazione (“fa lui o fa lei perché pensa che io non riesca”) o umiliazione (“non sono capace”). E se i compiti ottengono un brutto voto? Ecco che a quel punto il genitore non accetta la valutazione e affronta l’insegnante, ancora una volta in un confronto insensato e deleterio per il figlio o la figlia.

ritorno-da-scuolaVa vista però anche l’altra parte: la scuola, in alcuni i casi, sembra dare per scontato che i compiti a casa siano roba da genitori. Ho visto dare compiti da realizzare con strumenti che a scuola non erano mai stati utilizzati o insegnati, dando per scontato che in questo caso sia la famiglia a supplire. Ma tutte le famiglie hanno un computer in casa, per esempio? O tutti i genitori devono saper utilizzare con facilità i programmi per realizzare presentazioni online (che a scuola magari i ragazzi non hanno mai visto)? E tutti i genitori hanno il tempo o le competenze di seguire così dettagliatamente i propri figli? La risposta è no, a tutte queste domande. A volte anche gli insegnanti inciampano nel voler realizzare progetti che danno più soddisfazione e riconoscimento a loro che ai ragazzi stessi, che non riescono realmente ad esserne i protagonisti. Ovviamente, in questi casi, i genitori si devono per forza sostituire ai loro figli, che in quel momento quegli strumenti non li hanno.

Alla fine, quello che serve davvero, è ricordare chi è al centro del percorso scolastico, a chi deve servire. Mettendo da parte le aspirazioni da adulto, che con i figli hanno poco a che fare, il “fai tu quello che non ho fatto io” e via dicendo. Con un po’ di consapevolezza, l’esperienza scolastica ha molto da insegnare anche i genitori. Se scelgono di fare i genitori e se riescono a mantenere aperto un dialogo costruttivo con la scuola. Perché è lì che ci giochiamo il futuro.