Può la felicità essere una discriminante nella scelta di un lavoro? Ponevo questa domanda quando raccontavo la storia delle fioriste di Modena, ma non posso fare a meno di scontrarmi con lo stesso interrogativo ogni volta che un mio coetaneo mi racconta la sua storia, il suo percorso lavorativo, le sue scelte. Per quanto siano diversi gli ambiti in cui queste storie nascono, si dipanano tutte con la stessa modalità: l’entusiasmo degli anni di studio, il disincanto dell’ingresso nel mondo del lavoro, faticoso e posticipato all’inverosimile da un mercato che sembra non essere mai soddisfatto della proporzione tra età del candidato e competenze già acquisite, la successiva frustrazione per gli anni che passano e una stabilità che non arriva mai. Finchè alla soglia dei 40 anni la delusione porta tutti a scontrarsi con lo stesso interrogativo: ne vale la pena?
La risposta a questa domanda va da sé che sia un no, perché oggettivamente se abbiamo visto fare ai nostri genitori dei sacrifici di tempo e qualità della vita per raggiungere un benessere di cui tutto sommato abbiamo goduto anche noi, è anche vero che ora sembra che il tipo di sacrificio a noi richiesto sia più subdolo e paradossale. Un sacrificio inutile. Perchè quando a 40 anni non hai raggiunto lo standard sociale della generazione precedente, anzi, ne sei molto lontano, allora no, non ne vale la pena. E riguardi a tutto il tuo percorso con un nuovo paio di occhiali.
Molti a questo punto scelgono di reinventarsi e di cambiare totalmente lavoro. Che è una strada, non è l’unica possibile e nemmeno un dovere per tutti. Molti restano dove sono e ne ribadiscono l’ingiustizia. Che non è sbagliato, in fondo, affinchè non si pensi che vada tutto bene. Altri cercano un modo per riqualificarsi con le proprie competenze in un ambito magari inedito ma in cui c’è più mercato. L’unica cosa certa è che quello standard ha perso valore e va riconosciuto per quello che è: “Una menzogna sociale” lo definisce Deborah De Rose.
La storia di questa giovane donna di Cosenza aggiunge materiale alla ricerca di consapevolezza e felicità della generazione Xennial. Non tanto e non solo per ciò che ha fatto lei della sua vita.
A 31 anni Deborah era una giovane mamma avvocato perfettamente inserita nello standard che tanti suoi coetanei inseguono senza trovare. Poi succede qualcosa. Comincia a scrivere un blog in cui vuole celebrare la sua terra, la Calabria. Una terra che lei ama e di cui è stanca di sentir parlare solo in termini negativi. Cerca storie positive sul suo territorio, storie di creatività e rigenerazione, di impegno sociale, di valorizzazione della tradizione, di aggregazione. La ricerca la porta fino in Sicilia, al Farm Cultural Park di Favara, un progetto di una coppia che ha scelto l’arte contemporanea per dare una nuova identità a un territorio a rischio. Questo piccolo villaggio di arte e rigenerazione urbana, un gioiellino di utopia e concretezza, la colpisce profondamente. Sicuramente non ha i mezzi per ripetere l’esperienza a Cosenza, ma decide che sarà questa la sua vocazione: coltivare e alimentare la creatività come valore intrinseco per un cambiamento positivo e consapevole.
Nel 2015, a trentatrè anni, Deborah inaugura il suo spazio Interazioni Creative, a Cosenza, vicino al tribunale. Molti credono che stia inaugurando il suo nuovo studio da avvocato. In realtà si tratta di un’associazione di promozione sociale che ha l’obiettivo di dimostrare i benefici dell’economia collaborativa, di promuovere il lavoro degli artigiani, di far conoscere i mestieri dell’artigianato alle nuove generazioni, per prendersi cura di un bene comune: le persone che con le proprie scelte contribuiscono a tenere vivo un territorio difficile come quello calabrese. Lei lo racconta così: “Gli artigiani qui da noi imparano la forza delle soft skill, delle relazioni e della comunicazione di valori, anche per vendere di più. Oltre allo spazio per i laboratori metto a disposizione le mie competenze trasversali e tecniche, perché essere un maker non vuol dire essere un imprenditore. Non siamo un’associazione che monetizza, ma il valore che alimentiamo aiuta gli artigiani, dai 30 a i 60 anni, a uscire dall’isolamento anche se non sono artisti affermati, con la consapevolezza del saper fare e il desiderio di condividere”.
Deborah, in solitudine, dialoga col territorio e costruisce una rete che si estende fino a Matera e al progetto cugino di Casa Netural, mentre in due anni e mezzo ha dato vita a più di 120 laboratori e a un festival di artigianato e design negli spazi del MAM di Cosenza. Sta creando un network e questo dialogo dal basso è più vicino al territorio di quanto lo siano le istituzioni con i loro bandi totalmente slegati dalla realtà.
Di sicuro a molti sembrerà inutile quello che sta facendo. A quale domanda esattamente sta cercando di rispondere Deborah? Forse sta cercando di porla, la domanda. Forse sta contribuendo a far nascere la consapevolezza di una domanda. Forse sta ipotizzando la possibilità di un valore alternativo a quello standard irraggiungibile che ormai ha definito come menzogna sociale. Una cosa è certa: la consapevolezza di questa generazione nel riprendere possesso della propria vita passa molto spesso attraverso scelte fuori dal mercato e abbiamo il dovere di chiederci perchè. Quando ho chiuso il telefono dopo la nostra conversazione ho ripensato a una frase di Eugenio Barba, uno dei riformatori del teatro contemporaneo di fama internazionale. Barba risponde così a chi gli chiede quale sia l’utilità del suo lavoro:
“Rispondere significherebbe accettare la ragione per cui solo chi produce ha diritto di esistere, e chi non produce non ha più funzione perché socialmente morto. Chi fa questa domanda deve stare attento a se stesso, al suo atteggiamento che lo porta a negare il valore degli alberi che non danno frutti. Un albero che non dà frutto, proverbialmente inutile, diventa essenziale nelle città senza ossigeno”.