Stile e leadership al femminile: un valore aggiunto per le imprese e la politica

potenti

G20 settembre 2016

Le donne che governano, hanno uno “stile”?  Dalle piccole aziende alle grandi realtà multinazionali, dalle amministrazioni locali ai contesti politici internazionali, ci sono valori importanti che le donne portano nelle loro professioni: ma quanto riescono a trovare applicazione? E come affrontano (e talvolta vincono) le sfide rappresentate dalle differenze di genere in tema di leadership?

È stato proprio lo “Stile” delle donne a fare da fil rouge ai tre giorni di seminari e dibattiti di Expoelette 2017, il Forum Internazionale delle Donne al Governo della Politica e dell’Economia, cui hanno partecipato imprenditrici, politiche, presidenti di associazioni, docenti universitarie, che hanno raccontato le proprie esperienze e dato diverse chiavi di lettura del ruolo della donna che ‘governa’ (in politica o in azienda) o che si prepara per ricoprire un ruolo di responsabilità.

Un ampio spettro di contesti istituzionali e lavorativi in cui le donne si trovano a confrontrarsi con elettori, cittadini, dipendenti, collaboratori, clienti, colleghi, azionisti e in cui ciascuna mette in campo, oltre alle proprie competenze e alla propria esperienza, alcune ‘doti’ tipicamente femminili, e che in una società più inclusiva e attenta alla ‘diversity’ come quella attuale portano un autentico valore aggiunto al tradizionale modello di comando. Un esempio? Collaborazione, flessibilità, mediazione, ascolto. Tutte doti, tra l’altro, adatte per innescare cambiamento e innovazione.

Secondo la testimonianza di Belén Garijo, membro del consiglio direttivo dell’azienda farmaceutica Merk, le donne tendono a vedersi come il centro di una rete piuttosto che l’apice di una piramide, (…) e quando uomini e donne hanno voce paritaria nei consigli di amministrazione c’è maggior successo“. Riferendosi con questo alla maggior collaborazione che si crea in questi ambiti grazie alla presenza femminile.

Eppure permane ancora un’oggettiva difficoltà da parte delle donne, specialmente quelle che puntano a posizioni di vertice, a essere percepite come ‘capaci’ o affidabili per quel ruolo. Una delle sfide più insidiose è il convivere con le responsabilità della vita lavorativa e di quella privata, e agire contro i pregiudizi legati alla loro effettiva capacità di governare, di decidere, di comandare per il fatto di avere una famiglia, dei figli, di essere ‘femmine’.

L’idea di una donna  ancora molto legata al lavoro di cura porta con sé l’idea che, in ruoli di vertice, una donna non possa essere mai ‘abbastanza’: mai abbastanza forte, mai abbastanza assertiva, mai abbastanza presente, mai abbastanza ‘maschile’. E quando si mostra molto decisa (per non venir bollata come debole e quindi non qualificata per fare il capo) viene accusata di essere dura e prepotente.

clinton2È il paradosso del ‘double bind’, ovvero la quasi impossibile conciliazione tra il doversi mostrare abbastanza toste per guidare e amministrare, e il rischio di essere bollate come aggressive (bossy). In pratica, la donna è penalizzata quando mette in campo alcuni tratti della leadership maschile tradizionale (forza, comando, durezza, decisione, ambizione). Se infatti nell’uomo tali caratteristiche sono accettate e addirittura richieste perché danno sicurezza, nelle donne spiazzano e sono viste con sospetto e diffidenza. Un paradosso che non ha risparmiato nemmeno Hillary Clinton alle prese nel 2008 con una campagna per la nomination democratica per le presidenziali americane (persa contro Obama). Lo ha illustrato molto chiaramente la professoressa Franca Roncarolo (ordinario di Scienza Politica dell’Università di Torino) che ha curato il capitolo dedicato a Hillary Clinton nel libro di Donatella Campus L’Immagine della Donna Leader.

Se la società e il mondo del lavoro hanno però bisogno di flessibilità, resilienza, inclusività, collegialità e sobrietà, sembra quindi più auspicabile un modello di leadership al femminile. Un modello che tuttavia ha bisogno, come condizione preliminare, di maggior coraggio e fiducia in se stesse da parte di tante donne. È da qui infatti che si parte per intraprendere percorsi di carriera e governo che necessitano di una buona capacità di autopromozione, cosa in cui le donne spesso faticano. Ma autopromozione significa anche capacità di  gestire la propria esteriorità (abbigliamento e stile) come parte di una comunicazione efficace (dove la forma deve veicolare la sostanza), che renda le professioniste più consapevoli, forti, competenti, affidabili, meno vulnerabili e con meno condizionamenti.

Come scrive Janine Mossuz Lavau (direttrice del centro ricerche politiche di sciences-PO a Parigi) nel libro già citato di Donatella Campus “L’evoluzione più auspicabile sarebbe quella dell’indifferenziazione e dell’intercambiabilità. Cioè che i ruoli delle donne in politica diventino gli stessi di quelli degli uomini (…) Una società in cui la parità sia la regola che diventa naturale e che le donne in politica non siano più oggetto di curiosità”.