Ma ho la faccia da scienziata?

L’abito fa il monaco. Ancora nel 2016 e anche nelle scienze e tecnologie. Un recente studio condotto dall’Università del Colorado ha dimostrato come la gente tenda a mettere in stretta correlazione l’aspetto e le attitudini professionali di una persona, specialmente se si tratta di una donna. Nel test, il campione di studio doveva valutare 80 foto di volti maschili e femminili, e tra questi stabilire quali secondo loro potevano appartenere a scienziati e quali ad insegnanti elementari.

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Maryam Mirzakhani è una matematica iraniana

Mentre nel caso delle foto degli uomini l’associazione tra un viso e la possibile professione (scienziato o insegnante elementare) ha dato risultati variabili, nel caso delle donne è emerso nettamente che quelle con i tratti più delicati, i capelli lunghi e insomma quelle dall’aspetto decisamente più femminile, fossero considerate insegnanti elementari e non donne impegnate nella ricerca scientifica (quando in realtà tutte le 80 foto raffiguravano scienziati o ricercatori scientifici!).

La cosa interessante quindi è che il cervello in qualche modo è condizionato ancora dagli archetipi, da simboli tanto radicati nel nostro inconscio da associare immediatamente i segni più morbidi, delicati e fini, ad attività più materne e flessibili, come appunto l’insegnante elementare, o a ruoli di media responsabilità come l’impiegata o la segretaria. Mentre laddove in un viso femminile prevalgono tratti più mascolini – ad esempio una mascella più definita, o un naso importante, o capelli medio corti, ovvero dove non si percepisce una potenziale ‘fragilità’ data dall’appartenenza di genere – risulta credibile un lavoro che si basa sulla concentrazione e sul calcolo, come ad esempio lo scienziato, o sulla resistenza alle pressioni o alla fatica come ad esempio un amministratore delegato, o comunque una figura con grandi responsabilità.

Detto questo, sappiamo tutti che non è più così in molte realtà, ma la domanda che ci facciamo è: bisogna avere l’aspetto del mestiere che si vuole fare o si possono rompere gli stereotipi?

Dal momento che il ciclo professionale di ciascuno di noi non si basa solo su ciò che siamo e che sappiamo fare, ma anche sulla relazionabilità che sviluppiamo con gli altri, è necessario costruirla anche sulla credibilità del nostro aspetto. Individuare cosa vogliamo far percepire di noi, specialmente nelle situazioni in cui non siamo conosciute, dove la nostra reputazione non è consolidata, dove avere un’immagine che si adatta all’aspettativa dei terzi, può sicuramente facilitare i primi passi. Dopodichè deve prevalere una propria dimensione, nell’aspetto, che rispetti i codici professionali ma che non per forza di cose ci faccia apparire come non siamo.

Un esempio? Presentarsi per un incarico manageriale di alto livello senza trucco e ballerine non è un buon inizio: segnali di poca consistenza e non sufficiente ‘statura’. Una volta acquisita la posizione, l’assenza del make up o del tacco (esempio frivolo ma non troppo!) passa in secondo piano rispetto alle competenze dimostrate sul campo.

Altro esempio: presentarsi per un ruolo nelle risorse umane e vestirsi in total black con i capelli rasati da un lato. Questo nulla toglie alle capacità della persona, ma quanta perplessità potrebbe provocare il suo aspetto all’interlocutore del primo colloquio? Basterebbe indossare qualcosa di chiaro per apparire meno ombrosa e più credibile.

Rompere lo stereotipo è auspicabile, ed è ciò che ci aiuterà a far evolvere la percezione del femminile nel mondo del lavoro: è un atto di coraggio e di personalità, che come tutte le armi potenti, deve essere azionato nel momento giusto, una volta puntellata la propria posizione ed il proprio branding, diversamente rischia di compromettere le nostre opportunità e la nostra crescita.