Violenza domestica, i media ne parlano poco: «Il violento ha le chiavi di casa». I dati dell’Osservatorio Step

Monitorare quanta violenza e di che tipologia la stampa racconta, per dare visibilità anche alle forme più subdole e taciute di sopraffazione: se i femminicidi continuano a occupare le cronache principali, la violenza domestica – la più frequente tra i casi registrati dalla polizia – non cattura l’attenzione della narrazione giornalistica. Non raccontarla nelle sue dimensioni reali rischia di renderla invisibile: l’evidenza arriva dalla nuova analisi dell’Osservatorio STEP, nazionale e indipendente, dedicato alla rappresentazione sociale della violenza maschile contro le donne nel racconto dei media. L’ampia indagine, relativa ai primi sei mesi del 2025 e presentata a Roma nella sede della Federazione nazionale della stampa italiana, ha incluso 26 testate nazionali e 2.324 articoli di cronaca pubblicati sui principali giornali. «Nella stampa cattura attenzione soprattutto il femminicidio. La violenza domestica viene trattata solo nel 16 % degli articoli analizzati» sottolinea Flaminia Saccà, presidente dell’Osservatorio STEP, che aggiunge: «Serve parlare di più di violenza domestica perché, se invisibilizzata, si fatica a riconoscerla: accade che anche i magistrati non parlino di violenza domestica ma di liti o di “difficoltà caratteriali”, addebitate soprattutto alla donna». Ragionare sulle narrazioni serve a comprendere la cultura in cui gli stereotipi si muovono e prosperano.

Gli uomini violenti hanno le chiavi di casa

La vittima conosce il suo aggressore nel 98% degli articoli analizzati e, nel 75% dei casi, a commettere violenza sono uomini appartenenti al nucleo familiare: soprattutto gli attuali partner/mariti (56%). La violenza accade nelle mura di casa – i maltrattamenti familiari rappresentano il 51,7% dei casi affrontati dalla Polizia – ma solo il 16% degli articoli ne parla. Invece serve farlo di più e meglio: «Quando un uomo arriva a uccidere una donna, non accade mai all’improvviso – spiega Maurizia Quattrone, vicequestora della polizia di stato – Quel femminicidio comincia a consumarsi prima, ogni giorno in cui ogni singola donna viene sminuita, controllata o sopraffatta da un uomo che spesso è il suo partner». La vicequestora, da oltre dieci anni impegnata in casi di violenza di genere, riporta l’esempio del femminicidio di Sara Di Pietrantonio, uccisa a Roma nel 2016 dall’ex fidanzato Vincenzo Paduano: «Intervenendo su quel caso ho capito che le parole sono fondamentali a tutti i livelli: saper accogliere nei commissariati una donna vittima di violenza è fondamentale. Chi è già nella spirale della violenza non può subire un’altra forma di violenza da parte delle istituzioni con la vittimizzazione secondaria».

Più spazio alla voce degli offender

«Di norma la stampa tende a dare più voce alla parte dell’aggressore e ai suoi legali contribuendo al cosiddetto fenomeno ‘himpaty’ che sottrae vicinanza alla vittima, e questo è ancora lo scoglio più duro» sottolinea Saccà, confermando quanto già emerso nelle precedenti analisi: nelle narrazioni che danno spazio alla vittima, il suo punto di vista viene inserito nel 58% delle narrazioni. Mentre, negli articoli che danno spazio all’offender (il 47%), il 76% riporta la sua voce: «Il 18% in più rispetto a quanto si dà voce alla vittima – evidenzia l’Osservatorio – Se non altro perché loro sono vivi mentre la loro vittima no». Gli articoli che danno voce ad altre fonti, invece, riportano principalmente le autorità giudiziarie in quasi la metà degli articoli (44%) e, in maniera minore, le forze dell’ordine (19%), i testimoni diretti (16%) e le autorità istituzionali (14%).

Ancora troppa “himpaty” per gli uomini violenti

«L’amavo e mi trattava male. Dovevo dormire sul tappeto»: estratta da uno degli articoli analizzati riguardante il femminicidio di Ilaria Sula, questa frase rappresenta un esempio di quello che l’Osservatorio – riprendendo la filosofa Kate Manne – definisce “himpaty”. Ovvero la tendenza a empatizzare con le presunte “buone ragioni” e il punto di vista dell’autore di violenza. «L’ho uccisa con una pietra, non voleva tornare con me»: così hanno titolato molti quotidiani nei giorni successivi al femminicidio di Martina Carbonaro, 14 anni, e all’arresto di Alessio Tucci, reo confesso, che di anni ne ha 18 al momento del reato. «È molto provato, ha riferito di aver commesso l’omicidio in un momento di rabbia, per gelosia»: anche nelle dichiarazioni dell’avvocato difensore del femminicida, oggetto sia di titolazione, sia di contenuti più dettagliati negli articoli, vengono riportate molte parole giustificative del gesto.

Un’empatia verso gli autori di violenza che ne minimizza le responsabilità, senza attaccarne il potere: come emerge dalla word cloud costruita sulla base di tutti gli articoli analizzati, gli autori di violenza sono definiti «violenti». Ma anche «tranquilli», «gelosi», «possessivi», «ossessionati». «Anche quando uccidono, gli uomini mantengono il loro titolo – sottolinea Saccà – Mentre delle donne si mette in evidenza l’età per considerarle giovani e quindi sprovvedute»: nella word cloud che riguarda le vittime, infatti, i termini più ricorrenti sono «ragazza», «giovane» e «bambina».

 Se è il padre a uccidere, la narrazione è meno stereotipata

Quando a commettere l’atto violento è un padre o patrigno, la narrazione diventa più equilibrata: nei 128 articoli in cui il responsabile è il padre, in particolare, la narrazione appare più corretta, meno caratterizzata da stereotipi e frame narrativi che tendono a innescare processi di vittimizzazione secondaria e di deresponsabilizzazione dell’offender. L’atto violento sembra essere messo a fuoco in maniera più chiara e vengono meno anche strategie narrative che giustificano la violenza come frutto di un raptus o conseguenza della disperazione dell’uomo. In un numero limitato di casi si ricorre a espressioni che portano a deumanizzare il carnefice come «orco» o «mostro».

Vittime anziane o con disabilità, il femminicidio diventa “altruistico”

Lo stesso equilibrio non si ritrova quando le vittime sono donne più anziane o con disabilità. Nonostante ci siano stati dei miglioramenti rispetto agli articoli analizzati fra il 2020 e il 2024, in questo caso il femminicidio viene rappresentato addirittura come altruistico.

La violenza viene giustificata in quanto conseguenza della disperazione dell’uomo e definita una “tragedia familiare”. Al centro della narrazione c’è l’uomo e la sua sofferenza – «Stremato dalle conseguenze della patologia (della moglie)» – mentre la soggettività della donna scompare: viene rappresentata solo in relazione alla sua malattia. Questo tipo di narrazione, sottolinea l’Osservatorio, rappresenta pienamente le retoriche esoneranti dell’himpaty: inquadrare il reato acquisendo il punto di vista del carnefice, deresponsabilizzandolo.

Né demonizzare, né mitizzare: «Spiegare è il compito dei media»

«L’ultimo rapporto Istat ci dice che gli abusi sulle giovanissime, dal 2014 a oggi, sono raddoppiati – riferisce Mimma Caligaris, della Cpo Fnsi – Osservatorio Step – Una mappa inquietante: il 62% delle ragazze tra i 13 e i 24 anni riferisce molestie o attenzioni indesiderate». Ai media il compito di evitare la normalizzazione della violenza: «La comunicazione deve essere etica, attenta: bisogna spostare il focus sulle vittime, non sull’aggressore – spiega Caligaris – È importante non mitizzare né demonizzare, ma spiegare. Ogni episodio va inserito in un contesto più ampio, culturale e psicologico, che consenta al pubblico di lettori e ascoltatori, e soprattutto ai giovani, di riflettere senza identificarsi». Nonostante alcuni miglioramenti siano stati messi a segno – non si parla quasi più di “raptus” che giustifichi gli aggressori – alcuni casi rappresentano pericolosi arretramenti nella narrazione: è successo, riporta l’Osservatorio, nella cronaca del femminicidio di Ilaria Sula. L’attenzione sul femminicida Mark Samson, definito su alcuni media come «un bambolotto del quartiere», i particolari delle ultime ore di vita di Sula, affidate solo al racconto del ragazzo: inquadramenti della narrazione che non mettono al centro la vittima.  Di Mark Samson conosciamo tutto, mentre di Ilaria Sula si scrive molto poco. «L’informazione ha un ruolo cruciale – conclude Caligaris – E, per questo, deve essere formativa e responsabile».

«Proseguire il cambiamento culturale»: il nuovo Codice deontologico delle giornaliste e dei giornalisti

Per ribaltare la narrazione dominante, il giornalismo ha un ruolo fondamentale: «Nel nuovo Codice deontologico delle giornaliste e dei giornalisti, l’articolo 5bis del Testo Unico, sul rispetto delle differenze di genere, diventa articolo 13» spiega Elisabetta Cosci, presidente Cpo del Consiglio nazionale dell’Ordine delle giornaliste e dei giornalisti. Nel nuovo testo deontologico –   in vigore da giugno 2025 – è introdotta la declinazione di genere e, nell’articolo 13, il rispetto è indicato come postura essenziale della deontologia di chi fa informazione. «Nei casi di femminicidio, violenze, molestie, discriminazioni e di fatti di cronaca che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità, chi fa informazione – si legge nel Codice – Evita stereotipi di genere, espressioni, immagini e comportamenti lesivi della dignità delle persone». Un’indicazione che vale per parole e immagini: l’articolo 20 chiede di astenersi «dalla diffusione di immagini che possano portare a forme di spettacolarizzazione della violenza» e, sottolinea Cosci, si tratta di «una questione cruciale propri o dal punto di vista della spettacolarizzazione della violenza di genere che costituisce uno dei principali fattori di vittimizzazione terziaria messo in atto dai nostri media».

L’importanza delle parole in ogni luogo, dai media alle questure

Le parole servono a riconoscere la violenza, cristallizzarla e denunciarla. «Abbiamo creato sale di ascolto protetto nelle questure perché anche lo spazio dove la parola avviene è importante per far sentire le donne più tranquille» spiega la vicequestora Quattrone. Un aspetto centrale perché, saper verbalizzare le denunce, è ciò che fa la differenza durante il processo. «Abbiamo una responsabilità su come cristallizziamo il racconto della donna che denuncia: ad esempio fare in modo che reati differenti vengano distinti e risultino chiari. Un femminicida spesso è anche uno stalker» sottolinea Quattrone, che aggiunge: «Alle donne viene chiesto di denunciare, capire, riconoscere, mantenere la lucidità. Ma noi dove siamo?». Per aiutare le donne nel concreto, suggerisce la vicequestore, serve seguire due direzioni che si muovono insieme: formazione e prevenzione. «Se noi interveniamo in divisa significa che il reato è stato già commesso: serve creare cultura del rispetto, soprattutto nelle scuole e università» afferma Quattrone, che indica alcuni strumenti utili per collaborare: «Con l’app YouPol è possibile fare segnalazioni, anche in forma anonima, che attivano in automatico la geolocalizzazione: pensate a quante donne in casa vogliono chiedere aiuto e non possono farlo». Dai media alle questure, la parola può fermare la spirale della violenza. «Ognuno di noi può fare la sua parte – conclude Quattrone – Solo insieme possiamo farcela».

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