Basta femminicidi: parlarne non è sufficiente, bisogna agire su prevenzione e risorse

La strage a colpi di pietra nel Beneventano in cui hanno trovato la morte Elisa Polcino e il figlio, il femminicidio di Cinzia Pinna poche ore prima in Sardegna. Fino all’ultimo terribile femminicidio di Pamela Genini, 29enne accoltellata 24 volte dall’ex compagno Gianluca Soncin, imprenditore 52enne. E come di consueto arrivano le ondate di indignazione, le trasmissioni in tv, i commenti sulla stampa. Ma parlare dei femminicidi, indignarsi, commentare, sull’onda dei drammatici casi di attualità, non basta.

Si parla di violenza sulle donne soprattutto nel caso di eventi di cronaca che appassionano lettori e telespettatori, del delitto, dello stupro, senza sottolineare che stupri e femminicidi sono solo l’ultimo anello di una catena di soprusi e prevaricazioni che vanno segnalati e combattuti in tempo puntando sulla prevenzione.

Lo dice, nel 2011, la Convenzione di Istanbul fondata sulle 4 P: prevenzione, protezione delle vittime, punizione del colpevole e politiche integrate. Lo dice il Piano antiviolenza 2025-27, approvato tra le critiche delle associazioni che lamentano di non essere state consultate come sarebbe stato opportuno.

Perché le donne continuano a morire per mano degli uomini violenti?

«Sul perché le donne continuino a morire per mano degli uomini, nonostante i passi avanti nella prevenzione e nella protezione fatti grazie all’impegno delle donne dentro e fuori dalle istituzioni, dobbiamo interrogarci tutti. La violenza contro le donne – dice la senatrice Valeria Valente – non è un’emergenza ma un fenomeno strutturale le cui cause sono radicate nella cultura patriarcale ancora presente nel nostro Paese. È dunque necessario per prima cosa incidere profondamente non solo sulla cultura delle relazioni, ma anche sui modelli sociali e sull’organizzazione del potere e del tempo, sulle discriminazioni, sugli stereotipi e sui pregiudizi contro le donne».

E allora guardiamo ai fatti concreti, agli strumenti per prevenire e agire a livello strutturale: «È stato approvato- – ricorda Titti Carrano, avvocata e già presidente di D.i.Re- Donne in rete contro la violenza – il piano strategico nazionale contro la violenza maschile sulle donne 2025-2027, insieme al quadro operativo per le annualità 2025-2026. Ma questi documenti non sono stati condivisi con le associazioni che fanno parte dell’Osservatorio nazionale. Non c’è stata alcuna consultazione reale».

Sul fronte della protezione e del sostegno alle vittime, prosegue Carrano, «il quadro operativo prevede 70 azioni da realizzare entro il 2026. Ma non viene mai indicata una reale allocazione di risorse. Si parla di obiettivi, ma non di mezzi per raggiungerli. Si dice che i fondi ci sono, ma non si esplicitano i tempi, le responsabilità, gli indicatori di risultato. Così si ripropone un quadro vago e inefficace».

Critica anche Simona Lanzoni, vicepresidente dell’associazione Pangea Ets: «Il piano di azione attuale è insufficiente rispetto a molti altri Stati europei che sono più incisivi riguardo a diverse forme di violenza e alle azioni pianificate in maniera specifica. Sono piani che prevedono, a differenza di quello italiano, budget specifici e non distinguono a monte, come avviene in Italia, tra piano strategico e piano operativo. Un modus operandi che rallenta la risposta del sistema e non giova alla prevenzione, che si dovrebbe realizzare innanzitutto attraverso un’opera congiunta tra il Ministero dell’Istruzione e la società civile. Anche questo profilo è ancora da sviluppare maggiormente e in maniera inclusiva con le realtà che si occupano di violenza».

I vulnus nella risposta alla violenza

D.iRe – Donne in rete contro la violenza che raggruppa la grande maggioranza di centri antiviolenza in Italia sottolinea altri vulnus nella risposta alla piaga della violenza. Uno di questi riguarda proprio i cav e la modifica dell’intesa Stato-Regioni, prorogata di un anno e non ancora definitiva, sui requisiti strutturali dei centri antiviolenza .

«La narrazione – spiega Carrano  -secondo cui ‘i centri che non hanno i requisiti richiesti dall’intesa chiuderanno’ è fuorviante. Sono servizi misti e eventualmente di supporto.  La riforma proposta mina la specificità dei centri antiviolenza femministi, riducendoli a servizi socio-assistenziali generalisti, gestiti anche da enti privi di competenze specifiche in tema di violenza maschile contro le donne, cancellando l’approccio femminista che ha sempre guidato i cav e in violazione della Convenzione di Istanbul».

«Bisogna investire di più e meglio – aggiunge la senatrice Valente – sulla rete dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio, le cui operatrici dovrebbero essere protagoniste anche nell’educazione e nella formazione. L’ultimo piano antiviolenza, che il governo ha varato con decreto della ministra Roccella il 16 settembre 2025, presenta criticità: è stato redatto senza coinvolgere proprio le associazioni femminili e femministe che gestiscono la rete antiviolenza ed è carente proprio sul fronte della formazione».

Tra i punti criticati dalle associazioni anche la soppressione dell’obbligo di trasmissione annuale alle Camere di una relazione sull’attuazione del piano da parte del ministro delegato per le Pari Opportunità. «Non c’è trasparenza – denuncia Carrano –», e inoltre manca un’adeguata attenzione al fenomeno della violenza nel processo civile. «I dati dimostrano che gli ordini di protezione vengono applicati poco. Nel 2024 sono stati iscritti 534 ricorsi e ne sono stati accolti 26, con un tempo medio di 131 giorni. È il dato peggiore nel triennio considerato», aggiunge l’avvocata.

Le carenze legislative

Oltre alle risorse e alla corretta distribuzione delle stesse per garantire azioni di prevenzione, ci sono ancora delle lacune normative da colmare.

Lo ricorda Valente: «Sul fronte legislativo molto è stato fatto, ma sono tre le leggi che mancano all’appello: una legge sul consenso per dare modo alle donne di difendersi in tribunale contro lo stupro, senza essere vittimizzate due volte; una legge sulle molestie sessuali, con l’aggravante se il reato viene commesso nei luoghi di studio e di lavoro – ci sono proposte del Pd sia alla Camera che al Senato –. Infine va approvata la legge sul femminicidio, già licenziata al Senato, perché con il reato autonomo si riconosce specificità alla violenza maschile sulle donne. Il ddl rende obbligatoria la formazione per i magistrati e per gli operatori di giustizia e ciò è fondamentale. La legge 53/22 sulle statistiche in materia di femminicidi è ancora in attesa di attuazione».

Sul fronte della protezione, infine, «i braccialetti elettronici devono funzionare e bisogna mettere in condizione le forze dell’ordine di intervenire sui reati “spia”, per evitare il tragico epilogo del femminicidio».

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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.

Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.

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