La violenza sulle donne riempie le prime pagine dei giornali nella sua forma più drammatica, il femminicidio. La punta di un iceberg che nasconde, sotto il livello dell’acqua, non solo la violenza fisica e le molestie ma anche la violenza psicologica ed economica, forme più subdole e meno riconoscibili. E se la condanna dei femminicidi è unanime, il clamore mediatico ampio, la domanda che dobbiamo farci è: siamo in grado di riconoscere le altre forme di violenza sulle donne, soprattutto quando avvengono accanto a noi o nelle nostre famiglie? Perché se il reato di femminicidio è drammaticamente sotto gli occhi di tutti quando avviene, è anche vero che il sommerso degli atti di violenza di genere è ancora troppo grande.
La ricerca: una donna su cinque ha subìto violenza sessuale
Vanno in questa direzione anche le conclusioni di una recente ricerca realizzata da Bain & Company in collaborazione con Cadmi (Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano) e Differenza Donna, centri antiviolenza che ogni anno rispondono a migliaia di donne e le sostengono nei loro percorsi di libertà. L’indagine conferma che una donna su quattro ha subito violenza fisica nel corso della vita, mentre una su cinque ha vissuto episodi di violenza sessuale. Ancora più frequente è la violenza psicologica, che colpisce una donna su tre. Anche la violenza economica non è rara: una donna su cinque ne è stata vittima. Il 50% del campione ha subito direttamente e/o indirettamente forme di violenza fisica, psicologica o sessuale.
Sappiamo riconoscere la violenza?
Tuttavia, il quadro cambia se si guarda alla capacità di riconoscere la violenza di genere: il 65% degli intervistati non considera gravi comportamenti come spintoni o strattoni, mentre una persona su quattro non ritiene grave uno stupro all’interno della coppia – una percentuale che aumenta tra i più giovani. Solo il 25% degli intervistati considera estremamente gravi le forme di violenza psicologica ed economica, a fronte del 50% per quella fisica e sessuale. Ancora più allarmante il dato sui giovani: tra i 18 e i 30 anni, la percezione della gravità scende ulteriormente.
L’indagine, dal titolo “Sempre libera! Azioni per contrastare la violenza di genere” è stata svolta su un campione di oltre 1.000 persone in Italia – equamente divisi tra donne e uomini – e circa 10 referenti HR, che rappresentano complessivamente un bacino minimo di oltre 35.000 dipendenti, distribuiti tra aziende di grandi dimensioni, con organici compresi tra 1.000 e oltre 10.000 dipendenti.
Nel mondo del lavoro: discriminazione presente, ma non (sempre) riconosciuta
La percezione della violenza e della discriminazione sul luogo di lavoro, secondo la ricerca, è ampiamente riconosciuta: infatti, il 78% delle persone le considera gravi, sebbene con differenze a seconda del comportamento specifico. Tuttavia, alcuni atteggiamenti risultano ancora normalizzati. Ad esempio, 3 persone su 10 non considerano gravi comportamenti come i commenti misogini o l’assegnazione di compiti meno rilevanti alle donne. Ancora più allarmante è il fatto che solo 2 uomini su 10 ritengano estremamente grave il tentativo di sminuire il successo professionale femminile, evidenziando una persistente sottovalutazione di certe forme di discriminazione.
Il ruolo delle aziende e le azioni possibili
Le aziende possono svolgere un ruolo fondamentale nella lotta contro la violenza di genere, agendo – secondo Bain & Company che è tra chi ha commissionato la ricerca – su quattro aree principali: processi, strumenti, cultura e impatto esterno. A partire dai risultati della ricerca, Bain & Company, con il supporto di CADMI e Differenza Donna, ha deciso di lanciare un programma cross-aziendale per il contrasto alla violenza di genere. Ogni azienda aderente partecipa con un proprio referente a tavoli di lavoro periodici, co-crea iniziative interne ed esterne e condivide best practice.
«Le aziende non possono più restare a guardare. Hanno il dovere di agire – da dentro e fuori – per promuovere una cultura di rispetto, sicurezza e parità», ha dichiarato Pierluigi Serlenga, managing partner Italia di Bain & Company. Le aziende, ha sottolineato, hanno «il dovere – e la capacità – di generare cambiamento».
Ulivi (Cadmi): le aziende divenitno luoghi di libertà e forza per le donne
La ricerca svolta con Bain «conferma ciò che dal 1986 sappiamo grazie all’ascolto di migliaia di donne che si sono rivolte alla nostra associazione, che abbiamo sostenuto in percorsi di uscita dalla violenza, anche attraverso l’ospitalità in case rifugio», sottolinea Manuela Ulivi, presidente Cadmi. Ulivi mette in risalto come i dati mostrino, ancora una volta, l’importanza della prevenzione, prima ancora che della punizione, grazie all’intervento in ogni ambito della società.
«E l’ambito del lavoro – aggiunge – assume un’importanza specifica. Le aziende sono luoghi di incontro e socializzazione, che possiamo far diventare contesti di libertà e forza in cui maturino una coscienza e una conoscenza specifica del fenomeno».
Ercoli (Differenza Donna): il contrasto alla violenza sia responsabilità collettiva
Contrastare davvero la violenza maschile contro le donne richiede un cambiamento culturale profondo e i dati «sono strumenti preziosi di consapevolezza, capaci di svelare ciò che troppo spesso resta invisibile. Con Bain – dice Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna – abbiamo scelto di mettere al centro i nostri saperi basati sull’accoglienza quotidiana di donne, bambine e bambini in uscita dalla violenza, perché la violenza possa finalmente essere riconosciuta, nominata e soprattutto contrastata con responsabilità collettiva, da parte di tutte e tutti: individui, aziende e istituzioni».
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