L’8 e il 9 giugno quattro dei cinque referendum su cui gli italiani saranno chiamati a esprimersi avranno al centro il tema del lavoro, con l’obiettivo – secondo i promotori – di renderlo più stabile e più sicuro. Un’eventuale vittoria del “Sì” ai primi due quesiti porterebbe, in particolare, a maggiori tutele per i lavoratori in caso di licenziamenti illegittimi.
La scheda verde, quesito 1, propone l’abrogazione del contratto a tutele crescenti introdotto nel 2015 con il Jobs Act, che riduceva le ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro, in favore di indennità economiche predeterminabili in base alla sola anzianità di servizio del lavoratore ingiustamente licenziato.
La scheda arancione, quesito 2, riguarda la cancellazione del tetto all’indennità nei casi di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese (la gran parte sul territorio italiano). Se vincesse il sì, quindi, in caso di licenziamento, non ci sarà più una predeterminazione dell’indennità massima ma sarà il giudice a stabilire un risarcimento adeguato al danno subito.
Le storie di F.F., Luciano e L.G. ci raccontano quanto la disciplina sulla materia negli anni sia cambiata, portando con sé differenti impatti sulla vita e sul futuro di chi è stato coinvolto in casi di licenziamento.
F.F., licenziato a pochi anni dalla pensione
F.F., a 58 anni di età e con più di 30 alle spalle passati all’interno della stessa azienda viene, racconta, «messo alla porta, a 4 anni dalla pensione». Il licenziamento arriva dopo una carriera che l’ha visto assumere sempre più responsabilità in azienda negli anni, passando dalla posizione di magazziniere fino a diventare direttore. Di quegli anni, impiegato in una insegna della gdo (settore dove i lavoratori over50 sono il 28%), ricorda: «Non mi sono mai risparmiato: ho sempre fatto più delle 40 ore che il mio contratto forfettario richiedeva. Arrivavo per primo e andavo via per ultimo. Ho lavorato nei giorni festivi e ho sempre avuto ottimi rapporti sia coi miei superiori sia con i sottoposti. Penso di poter dire, al netto degli errori umani che si possono fare in tanti anni di lavoro, di essere stata una figura ineccepibile all’interno dell’azienda. Tanto è vero che per potermi licenziare, una delle lettere di richiamo che ho ricevuto faceva riferimento a un “buco” negli scaffali».
A due lettere di richiamo e un giorno di sospensione è seguito il licenziamento. «La vicenda mi turbò molto, anche per quello che rappresentava il mio licenziamento, avvenuto contestualmente a quello di molte altre persone, più di 100. Tutti più o meno con lo stesso percorso professionale, ma soprattutto, con le stesse tipologie di contratto. La sensazione era che si volesse puntare a mettere al nostro posto delle persone più giovani, con contratti meno stabili, meno tutelati».
Se si guarda all’occupazione nella grande distribuzione organizzata, il settore ha visto un incremento degli occupati del 3,9% in 5 anni, tra il 2018 e il 2023, e impiega oggi 440mila lavoratori, in base a una ricerca a cura di Federdistribuzione e PwC Italia. I contratti a tempo indeterminato rappresentano l’86,5% del totale ma allo stesso tempo la gdo è al terzo posto tra i settori produttivi italiani in cui si concentra maggiormente il lavoro temporaneo, con il 13% delle richieste totali (dati Iziwatch – Osservatorio sul lavoro temporaneo).
La contrattazione finale con l’azienda vale a F.F. una buonuscita, sebbene inferiore alla sua richiesta. Con queste risorse l’uomo fa fronte agli anni che mancano per la pensione e, al contempo, vorrebbe aiutare il figlio che fa il panettiere e coltiva il sogno di aprire un panificio che definisce «etico», cioè «un negozio che segua degli orari che non rendano la vita impossibile ai mastri panificatori», spiega. E conclude: «Mi sembra un’ottima chiusura del cerchio: questi soldi potrebbero andare a costruire un luogo di lavoro che dia valore al tempo e alla vita di chi viene dopo di me».
Licenziamenti, prima del Jobs Act…
Al contrario di F.F., la storia di licenziamento di Luciano Pasetti si è conclusa con un processo e un reintegro. Nel dicembre 2018, l’operaio viene licenziato dal suo posto di lavoro in una grande insegna della gdo per un presunto maltrattamento di un cliente. Questa è la motivazione ufficiale, ma fin da subito sorge in lui il sospetto che si tratti di un “licenziamento politico”: «Ho pagato – dice – 20 anni di attivismo sindacale con il mio posto di lavoro».
Oltre a passare per le vie legali, il lavoratore intraprende anche un’azione politica per contestare la decisione, con manifestazioni e picchetti insieme a diverse organizzazioni sindacali e esponenti politici locali davanti al luogo di lavoro. Anche oggi la fiamma dell’attivismo e l’impegno quotidiano di Luciano in difesa dei diritti dei lavoratori non è sopito. Per questo è tra i promotori del coordinamento Fare Rete «per restituire una prospettiva collettiva ai licenziamenti e affinché la mia vittoria non resti fine a se stessa».
Cinque udienze (nei vari gradi di giudizio fino alla Cassazione nel 2022) hanno sancito l’insussistenza del licenziamento e portato alla reintegrazione di Pasetti al suo posto di lavoro, secondo quanto stabilisce la legge Fornero: «Essendo stato assunto nel 1986, al mio caso sono state applicate le disposizioni della legge del 2012, ma se fossi stato giudicato con il Jobs Act, avrei avuto solo un risarcimento, senza il diritto al reintegro».
Se il “Sì” dovesse prevalere nel referendum per il primo quesito, non si tornerebbe alle disposizioni originarie dello Statuto dei lavoratori (1970), bensì alla versione modificata nel 2012 dalla Legge Fornero.
…e dopo
L.G. lavorava nella ristorazione – settore molto frammentato con oltre 1,5 milioni di addetti e un fatturato che supera i 105 miliardi di euro – quando, nel 2015 (post Jobs Act), scopre di essere incinta. All’epoca, riflette, «il Jobs Act rese più facile il mio licenziamento».
Proprio negli stessi giorni sta vivendo anche il drammatico deterioramento dei rapporti con l’azienda presso cui è impiegata come vice-responsabile di sala. «Sono stata licenziata dopo avere rifiutato di dare le dimissioni volontarie e dopo tre lettere di richiamo per dei ritardi che in realtà non avevo mai fatto, quando invece lavoravo con turni che andavano dalle 8 alle 13 ore in un ambiente di lavoro ostile e stressogeno, al limite del mobbing».
Da notare che, simulando le dimissioni volontarie da parte di un dipendente, un’azienda può evitare gli obblighi legali previsti dal licenziamento, come il preavviso o l’indennità.
Soprattutto le lavoratrici, poi, sono colpite dal fenomeno delle cosiddette dimissioni in bianco, pratica con cui il datore di lavoro, al momento dell’assunzione – passaggio in cui la posizione del nuovo assunto è più debole -, fa firmare una lettera di dimissioni senza data (in bianco, appunto) ma che potrebbe avere efficacia successivamente, in qualsiasi momento del rapporto di lavoro instaurato, ad esempio in caso di maternità. Per contrastare il fenomeno, il legislatore è intervenuto, prima con la legge 188/2007 e poi ancora ne 2012, nel contesto della riforma del mercato del lavoro, varando nuove misure a contrasto. Dal 2016, le dimissioni volontarie possono essere presentate esclusivamente in modalità telematica.
In seguito alla sentenza che ha appurò le molte ore di straordinario fatte dalla dipendente, l’azienda è stata costretta a riassumerla. Il giudice, racconta L.G., «stabilì che mi venissero rimborsati i mesi di stipendio non percepito, oltre al reintegro del posto di lavoro e a un risarcimento danni».
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