Sofia Borri: «Verità e giustizia per mia madre Silvia, desaparecida in Argentina»

«Sono stata sequestrata con mia madre Silvia a Mar del Plata la notte del 26 febbraio 1978. Avevo due anni. Quella notte ha segnato la fine della mia infanzia».

Lei è Sofia Borri, figlia di Silvia Susana Roncoroni, una delle 30.000 persone fatte sparire dalla dittatura argentina degli anni ’70 e più precisamente dal regime del generale Rafael Videla che il 24 marzo 1976 era salito al potere con un golpe militare. Gli anni che seguirono, fino al 1983, furono tra i più drammatici mai vissuti dall’intera America Latina. Migliaia di persone sparirono apparentemente nel nulla: rapite, torturate, sedate e lanciate dai cosiddetti “voli della morte”, nell’Oceano o nel Rio della Plata o sepolti nelle fosse comuni. Le stesse in cui, anni più tardi, le mani degli esperti dell’Equipo argentino de antropologìa forense, l’ONG specializzata nel ritrovamento delle persone scomparse, avrebbero iniziato a scavare. Molti di quei cadaveri erano di donne. Tantissime le mamme, o quelle che a breve lo sarebbero diventate. E sono proprio i loro figli e figlie a essere la testimonianza più efficace dell’esistenza di quelle vite spezzate.

«Quella notte mia mamma era con altre tre donne: Dora, Elena e Maria Cristina; erano tutte e quattro militanti del Partito Comunista Marxista Leninista Argentino che dal golpe militare era diventato illegale. Sono state sequestrate, torturate e uccise nella Base Navale della Marina Militare a Mar del Plata. Io, dopo il rapimento, sono stata affidata a mia nonna e in seguito a mio padre. Ho aspettato che mia madre tornasse per diversi anni: un anno per la festa della mamma le avevo anche fatto con le mie mani un regalo. Poi, ho capito che la sua voce era stata silenziata, insieme a quella di molte altre».

Il processo per lesa umanità

La sua storia è diventata, così, una storia collettiva, fatta di verità negate e ingiustizie diffuse. Ombre sulle quali si proverà a far luce tra poche settimane: il 25 ottobre 2024 partirà a Mar del Plata il processo per lesa umanità che coinvolgerà 20 imputati ritenuti responsabili di più di 120 casi di sequestro, tra cui quello “de las chicas”, delle “ragazze”, ovvero di Silvia, Dora, Elena e Maria Cristina. A seguire il processo sarà l’avvocata Griselda de Antoni che Sofia ha incontrato due anni fa, quando era volata in Argentina con l’autrice Sara Poma per ricostruire la sua storia per il podcast “Figlie” (RaiPlay e Chora Media).

«Griselda mi aveva raccontato il suo lavoro di supporto ai familiari delle vittime e ai testimoni. È un lavoro difficile, reso ancor più complicato dal cambio politico e dal governo negazionista che osteggia tutte le attività di difesa dei diritti umani». Se, infatti, con il governo Kirchner erano stati fatti avanti passi nel percorso pubblico di ricostruzione della giustizia, dalla creazione di Registro unificato delle vittime del terrorismo di Stato all’annullamento delle leggi di impunità per i militari e l’avvio dei processi per lesa umanità, oggi, con l’elezione di Javier Milei, molte cose vengono messe in discussione. «Si respira un’aria negazionista che si traduce in un ostruzionismo nei fatti: le udienze per il processo saranno calendarizzate solo il venerdì mattina, nella speranza di allungare i tempi. Il livello del conflitto si è alzato, è più difficile parlare di Desaparecidos oggi, di quanto non lo fosse qualche anno fa» – denuncia Sofia.

Per questo, è ancor più importante esserci. Lei siederà in quei banchi e guarderà in faccia chi le ha rubato l’infanzia. Non ricorda nulla di cosa sia effettivamente accaduto quella notte, eppure tutto ciò che le è successo dopo è essenziale per confermare la scomparsa di Silvia. Una mamma coraggiosa, una militante di 35 anni, ma anche un’architetta, appassionata di musica e di vita. Una donna ricca di relazioni, consapevole e accogliente. Una ragazza che aveva scelto di rinunciare a un pezzo della sua libertà personale per una motivazione più grande: difendere la libertà comune. Non poteva farsi fotografare Silvia, né farsi chiamare per nome. Sofia ha solo una foto con la sua mamma, e non la ama particolarmente: «Mia mamma non guardava in camera, non poteva mostrare il suo volto, sarebbe stato troppo pericoloso. Era triste». C’è un’altra foto, invece, che la rappresenta molto di più. Era del tempo di prima. Prima che la dittatura oscurasse il suo futuro e quello della sua bambina.

Dall’Argentina all’Italia

Dopo il rapimento, la vita di Sofia è diventata un lungo viaggio, mai isolato eppure spesso solitario. Con il suo papà, anche lui militante, e diversi altri compagni e compagne, è fuggita in esilio in Svezia con un ponte aereo umanitario. Per un anno hanno vissuto in un campo profughi e a seguire hanno abitato in una vera e propria a casa, in quartiere periferico di Stoccolma. «In quegli anni dell’esilio gli adulti intorno a me pensavano solo all’Argentina. Era lì che volevano ritornare. In Svezia abbiamo vissuto un tempo sospeso e in una dimensione comune in cui tutto era condiviso, anche la genitorialità» – ricorda. Poi, un giorno, la dittatura è terminata.

Quella notizia ha significato molte cose per quel gruppo di esiliati. Tra queste, la consapevolezza che chi era scomparso non sarebbe più tornato. Neanche Silvia. E con questa verità drammatica, è arrivata l’urgenza di ricostruirsi. Di iniziare, forse per la prima volta, a pensare alla vita “dopo”. Dopo la tragedia, le perdite, la paura e la morte, tornavamo a progettare e a pensare alla vita. La scelta è ricaduta sull’Italia, un Paese che in qualche modo sembrava più simile all’Argentina di quanto non fosse la Svezia, ma molto più sicuro della loro terra d’origine.

«Abbiamo abitato a Rocca Brivio, una sorta di “comune” fuori Milano, fino al 1990. Lì mio padre ha incontrato quella che poi sarebbe diventata la mia mamma adottiva: Nicoletta. È una storia di donne, la mia. Di donne che hanno lottato e che mi hanno salvata». Ma è anche una storia di donne ritrovate: come le “sorelle” che Sofia ha incontrato per le strade e nelle piazze di Buenos Aires quando, a soli 16 anni, ha iniziato a viaggiare per ritrovare le sue radici, per portare avanti in prima persona la causa delle e dei desaparecidos.

La causa degli Hijos

«Quando ho conosciuto altri figli di desaparecidos, che proprio in quegli anni stavano dando vita all’associazione Hijos, è stato potentissimo: erano ragazzi come me, soli, ammaccati, doloranti e arrabbiati, immersi in un Paese brutale e pervaso di impunità. Sono diventati come una famiglia per me e io per la prima volta mi sono sentita parte di qualcosa. Mi sono sentita anche fortunata, in realtà, perché abitavo in Europa, dove il mio dolore era in qualche modo rispettato. In Argentina, invece, poteva capitare di sentirsi dire: “tua madre se l’è cercata”» – ammette Sofia. «Durante gli anni dell’adolescenza sono tornata spessissimo in Argentina, così ho ricucito lo strappo con il Paese che avevo sempre sentito chiamare “casa”, ma che mi era, di fatto, sconosciuto. Mettermi in cammino è stato il mio modo per socializzare la perdita e, di conseguenza, la lotta».

L’essere cresciuta nella verità, per quanto dura, ha fatto sì che Sofia diventasse una combattente fin da piccola. Le ha consentito di dare al suo lutto un significato politico. E sarà così anche con il processo. «È lì che la mia storia con la “s” minuscola incontrerà la storia con la “S” maiuscola. È lì che con la mia e le altre testimonianze lavoreremo per la memoria in funzione generativa, affinché semini anticorpi per il futuro» – commenta Sofia. Semi di cui mai come oggi abbiamo bisogno. Per ricordare a tutti noi, distratti e disincantati, quanto l’essere umano debba essere anche un essere politico, pronto a lottare per la “memoria, verdad y justicia”, la “memoria, verità e giustizia”.

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