Violenza psicologica, quei lividi dell’anima che annientano il sé

La freddezza delle notizie di cronaca, spesso con una modalità sensazionalistica, riporta alla nostra attenzione, quasi quotidianamente. una realtà drammatica che molte donne si trovano a vivere: una relazione violenta da parte del partner. Spesso se ne parla in occasione di esiti drammatici quando la violenza è arrivata a una tale intensità che il femminicidio si viene a configurare come l’atto finale di un processo di dominio, potere e sopraffazione dell’altro. Una morte annunciata. Non si tratta mai di un raptus, ma frutto di reiterate forme di violenza a cui la donna è stata sottoposta, talvolta per anni. L’antica sopraffazione dell’uomo sulla donna, dunque, non è scomparsa, è solo divenuta più subdola e al di là delle innumerevoli forme che assume, ogni violenza è sempre in primo luogo una violenza psicologica. Nella mia esperienza professionale ho potuto verificare che può esistere una violenza psicologica senza la presenza di una violenza fisica, ma non è mai vero il contrario.

Una forma di violenza ancora troppo accettata

La violenza psicologica comprende tutte quelle parole e gesti che hanno l’intento di rendere insicuro l’altro, di fargli del male al fine di controllarlo e dominarlo. I comportamenti, oltre a essere molto vari (svalutazioni, denigrazioni, controllo, isolamento, minacce, intimidazioni) possono variare d’intensità, di frequenza e risultare più o meno manifesti. All’interno delle relazioni intime la violenza psicologica, essendo la più difficile da riconoscere, la forma meno evidente, è anche quella che desta meno allarme sociale e quindi alimenta l’idea, diffusa nell’immaginario collettivo, che sia qualcosa di più ammissibile, una violenza di gravità inferiore, meno dannosa. In realtà ha un forte potenziale traumatico che mina e disorganizza l’assetto psicoemotivo di chi ne è vittima: nel tempo mina il valore personale, il senso di identità, l’autostima; può portare all’insorgere di ansia, depressione cronica e disturbo da stress post-traumatico.

La difficoltà di dare un nome a ciò che si sta vivendo

Le aggressioni psicologiche sono sottili, non lasciano tracce tangibili, eppure vi è un’anima che progressivamente viene accartocciata, una psiche che riporta lividi che si sviluppano in una dimensione di silenziosa “invisibilità”. All’inizio è molto difficile riconoscerla nella relazione di coppia, per lungo tempo, infatti, la donna non ha una chiara percezione di quello che sta succedendo perché il maltrattante mette in atto quello che lo psicoanalista francese Paul-Claude Racamier ha chiamato «décervelage» (decervellaggio): un processo di lenta erosione della personalità e delle difese della vittima che può svolgersi nell’arco di più anni e che, gradatamente, la rende incapace di essere consapevole degli abusi e di reagire in modo efficace e protettivo ad essi. Si tratta di un vero e proprio lavaggio del cervello, una manipolazione psicologica e relazionale, che tende a confondere la vittima attraverso una sistematica distruzione di ogni sua certezza, ogni punto di riferimento e fiducia in se stessa.

Il “crescendo” delle storie di violenza

La violenza difficilmente si manifesta fin dall’inizio del rapporto, in quella prima fase che Marie-France Hirigoyen in Molestie Morali (1998) definisce di “seduzione perversa”, l’uomo si mostra accudente, gentile, premuroso, legando a sé la donna e guadagnandosene così la fiducia e l’affetto. Con il tempo, però, il rapporto che la donna credeva essere sicuro e gratificante si caratterizza per la comparsa dei primi episodi di violenza, che, dapprima “in sordina”, poi in un crescendo sempre maggiore, la priva della propria libertà e del proprio senso critico. L’uomo per poter acquisire un vero e proprio controllo sulla vita e sul modo di pensare della donna, ne mette in discussione i pensieri, i comportamenti e perfino la sua percezione della realtà.

Il gaslighting, tra inganno e manipolazione

Una forma particolare di violenza psicologica, infatti, è proprio il gaslighting; tale termine trae origine dal film di George Cukor Gas Light, in cui viene raccontata la storia di Paula e del marito Gregory, che cerca di portare la moglie alla pazzia manipolando piccoli elementi dell’ambiente, ad esempio si impossessa di alcuni gioielli di famiglia senza che lei se ne accorga, affievolendo le luci delle lampade a gas della casa in cui vivono. Nel momento in cui la moglie nota questi cambiamenti, il marito insiste nell’affermare che sia lei a ricordare male o inventarsi le cose, le fa credere che tutto dipenda della sua immaginazione, portandola a dubitare di se stessa, dei suoi giudizi di realtà e spingendola a credere di stare impazzendo.

L’elemento su cui si fonda il gaslighting, infatti è l’inganno; attraverso una strategia comunicativa costellata continuamente da frasi che disconfermano il percepito della donna (“Ti ricordi male come sempre”, , “Mi sto preoccupando per te perché dici cose strane”) e che negano fatti realmente accaduti (“Questo non è mai successo, ti inventi le cose”, “non ho detto questo, hai capito male come sempre”) la vittima inizia a dubitare di se stessa e a credere di essere pazza. Infragilita, lesa nelle sue capacità decisionali e di fiducia in se stessa, la donna va incontro a uno stato mentale depressivo e di rassegnazione, diventando insicura, vulnerabile e dipendente.

Un processo che arriva alla perdita di sé

Ma accanto al gaslighting, le continue svalutazioni, l’ironia e il disprezzo costante usati per criticare e screditare apertamente tutto ciò che la donna è o fa, uniti all’isolamento, alla trascuratezza emotiva e alle intimidazioni e minacce, permettono la “colonizzazione” della mente della donna. La creazione di tali condizioni, e la loro reiterazione negli anni, ha l’effetto di alienare la donna, causandole la perdita dei punti di riferimento interni ed esterni. L’intenzione è di renderla dipendente dal contesto che l’aggressore propone ed impone.

“Spezzare la sua visione del mondo e di sé stessa”, agendo sul suo pensiero, giorno dopo giorno, con un lavoro metodico e programmato che stravolge i suoi valori e il suo punto di vista su ciò che succede (Ponzio, 2000). La donna vede ridursi a poco a poco per erosione la sua resistenza e le sue capacità di opposizione. Perde ogni possibilità critica; è cosificata, non è più capace di avere un pensiero autonomo, “deve” pensare come il suo aggressore Vi è una vera e propria effrazione psichica a causa della quale “ciò che la vittima percepisce, sente e pensa è legato a un altro, alla maniera in cui l’altro l’ha pensata, che si riflette in autosvalutazione, paura di parlare, di chiedere qualcosa, di offendere, di deludere ecc; questo pensiero altrui rimane nell’ombra ma onnipresente e acquisisce una densità psichica, ostacolando il vero percorso del pensiero proprio”. (F.Sironi, 2001, pag.61) è come se nel sistema cognitivo della donna fosse entrato il punto di vista dell’uomo e lo avesse alterato. Il “lui dice”, “lui pensa” al posto di “io dico” “io penso” presente costantemente in ogni forma di comunicazione della donna è indicativo della perdita della sua soggettività.

Per comprendere appieno questo meccanismo, straordinario è lo spot di Ad Maiora Onlus di cui consiglio la visione in cui, quel cambio di voce della protagonista, evidenzia come il condizionamento estremo a cui è stata ne abbia distrutto ogni capacità di autodeterminazione. Lei non cè più “è un altro che parla”. L’abuso emotivo, come qualsiasi altra forma di violenza, prospera quando non lo si riconosce. Per uscire da queste difficili situazioni relazionali primo passo, ma anche il più difficile, è riconoscere che ciò che si sta vivendo è qualcosa di tossico, è violenza. Tornare ad essere padrone della propria vita, ricostruire la fiducia in se stesse, autodeterminarsi può essere un percorso lungo e faticoso, ma pienamente realizzabile; potrebbe essere utile chiedere un aiuto a professionisti o ai centri antiviolenza per essere sostenute nel superamento del trauma e sentire che il proprio valore è qualcosa che non dipende dall’altro, chiunque esso sia.

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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.

Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.

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