Una chiamata al 112, la sera di sabato 11 novembre: un cittadino segnala di essere stato testimone di quella che sembra essere un’aggressione. Un litigio? Alle ore 23.18, le forze dell’ordine ascoltano il testimone raccontare di aver sentito urlare «mi fai male», e visto un uomo calciare una figura a terra, ma di non essere riuscito a prendere la prendere la targa dell’auto. In quel parcheggio, si scopre con amarezza solo giorni dopo, è avvenuta a quell’ora la prima aggressione di Filippo Turetta ai danni di Giulia Cecchettin.
Nell’ordinanza del Gip non c’è traccia dell’intervento di pattuglie quella sera. L’indagine scattò solo domenica, dopo la denuncia di scomparsa di Giulia presentata dal papà. Si poteva fare la differenza? Giulia Cecchettin poteva non essere nell’elenco delle vittime di femminicidio ed essere ancora viva? La storia e i fatti non hanno spazio per i se e per i ma, questo lo sappiamo. Ma quanto è amara la constatazione che, nonostante tutti i #nonseisola e le esortazioni a denunciare le violenze, ancora una volta ci troviamo di fronte a un grido di aiuto che non è stato ascoltato.
Le parole giuste nel posto sbagliato
“Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.”
Questi sono i versi di una poesia del 2011 di Cristina Torres Caceres che in questi giorni hanno invaso gli spazi di confronto di chi si impegna nella lotta contro la violenza di genere. Attiviste, giornaliste, centri antiviolenza, persone, in moltissimi hanno fatto propri questi versi, accanto all’amara constatazione “lo sapevamo tutte”, sul ritrovamento del corpo senza vita di Cecchettin.
È successo che anche sul profilo Instagram della Polizia di Stato sono comparsi questi versi. Versi che, nelle intenzioni di chi li ha scelti, “ci ricordano, oggi più che mai, l’importanza di essere uniti nel combattere la violenza sulle donne. Ricordate, se #questononèamore non siete sole. Insieme per l’eliminazione della violenza di genere”.
Più di 4mila i commenti per questo post, che però mostrano una realtà molto diversa da quella che vorremmo: amarezza, frustrazione, rabbia, accompagnano le testimonianze di migliaia di donne che non hanno ricevuto il supporto che si aspettavano denunciando atti di violenza, o, peggio, che proprio dalle forze dell’ordine hanno subito molestie o catcalling.
Quando ci si scontra con la disperazione che comporta un caso di violenza, che sia occasionale o reiterata, quello che ci aspetteremmo quando chiediamo aiuto è di riceverlo. Un problema di leggi, forse, ma soprattutto c’è il rischio che anche quando queste esistono, senza investire sulla formazione di operatori e forze dell’ordine, le tutele per le vittime restino sulla carta.
E infatti, anche su Instagram, non manca di notare una persona: “Dopo tutte queste testimonianze, sono ingenua se spero che qualcuno proponga formazione a tappeto per gli operatori e le operatrici di Polizia? Ci sono i Centri Antiviolenza che potrebbero essere coinvolti…la butto lì, eh. Comunque un esamino dello stato reale della situazione prima di condividere certe citazioni si potrebbe pure fare”.
Le testimonianze
Da voi mi è stato detto “Signorina è normale litigare”. Non era normale, ed era davanti ai vostri occhi.
Quando sono stata picchiata alle 20.30 di una sera di dicembre mi avete chiesto se mi sembrava il caso di passeggiare sola per le strade buie.
Ma se mi avete presa in giro quando ho detto che mi seguivano e molestavano sotto casa? Mentre piangevo per la paura di scendere con i miei cani per settimane! Mi avete detto di vestirmi da maschio!
Dieci di sera, io e un’amica camminavamo per le strade della nostra città. Una pattuglia passa e ci fischia. Noi eravamo minorenni.
Ah ci siete? Come quando mi avete detto….su su è natale fate pace dopo che aveva cercato di strozzarmi
Vi ho chiamati perché mi stavano pedinando due uomini di notte e non c’era nessuno per strada. La vostra risposta è stata: “non è che magari vogliono conoscerti in un modo un po’ loro?”
Le stesse persone che mi hanno detto “signorina capiamo che è arrabbiata ma sta facendo una scenata, se non l’ha toccata non possiamo fare nulla”
“Sicura di non voler ritrattare quello che stai dicendo? Sai, potrebbero non crederti, non é che hai qualcosa da nascondere e la stai usando come scusa?” Cit.
All’ennesimo comportamento di violenza di mio fratello in casa contro di me e mia madre e dopo che con la forza si era preso la macchina di mia madre e non voleva restituircela ci rivolgiamo a voi e ci sentiamo dire “risolvetele in famiglia tra di voi queste cose se lo denunciate poi rischia di perdere il lavoro” grazie per non averci credute e ascoltate per voi era più importante che lui non perdesse il lavoro non che aveva comportamenti violenti.
Vi ringrazio per quella volta in cui nonostante le prove di maltrattamenti nonostante i lividi visibili mi è stato risposto “ è vabbuó signorì ma e suo padre vedrà che le cose cambieranno ma poi lei e la figlia femmina e normale che sia geloso”
Quando vi ho chiamati in lacrime, mi avete risposto di cambiare moroso, appena siete arrivati perché chiamati dai vicini, mi avete vista in lacrime che non riuscivo nemmeno a raccontare l’accaduto, mi avete fatto passare per la pazza, e nel mentre conoscendolo, avete chiesto come stava il suo cane. E dovremmo sentirci protette?!
Quando un ragazzo ha cominciato a pedinare una mia coinquilina ci siamo sentite più protette dal piadinaro sotto casa che da voi.
Spero leggiate tutte queste testimonianze, tutte queste parole che non fanno altro che confermare il fallimento dello Stato di fronte ad una vera e propria emergenza che non è nata due giorni fa ma va avanti da anni.
Potrebbero essere queste le parole che mettono un punto pesante come un macigno a concludere questa triste carrellata di esperienze. Eppure no, c’è ancora qualcosa, qualcosa che preme sullo stomaco e dà un senso di nausea: la notizia appresa oggi di quella chiamata al 112 che, forse, tra un se e un ma, avrebbe potuto salvare la vita di Giulia Cecchettin. E così mentre una parte dell’opinione pubblica ha deviato la propria attenzione su quella sorella così solida, determinata, lucida, e sulle sue felpe, c’è chi resta centrato e riconosce la traiettoria delle colpe e delle responsabilità.
La colpa è di chi commette il crimine, e per quella colpa verrà giudicato. Ma la responsabilità di quel crimine, quando ci troviamo davanti a un fenomeno così intrinsecamente pervasivo e reiterato, non può essere più attribuita all’individuo. È una radice ramificata nel nostro pensiero, nell’incapacità di riconoscere la violenza, di contrastarla, di prevenirla. Una radice che va estirpata.
In queste ore, in questi giorni, abbiamo sentito spesso definire il femminicidio un “omicidio di Stato”. Forse ora, con tutte queste testimonianze sulla solitudine delle donne che denunciano e chiedono aiuto, sarà più chiaro che cosa si intende con queste parole. Il riassunto è in un altro dei commenti al post della Polizia:
E comunque #giuliacecchettin l’avreste potuta salvare ma non avete nemmeno acceso l’auto per andare a vedere dopo che vi hanno chiamati.
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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.
Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.
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