Ogni forma di dissenso conta: in Iran le proteste cambiano forma e diventano disobbedienza civile. A un anno dall’uccisione di Mahsa Amini – la ragazza curda uccisa a Teheran dalla polizia morale per aver indossato “in modo improprio” l’hijab – la rivoluzione guidata dalle donne si innesta nella vita quotidiana del popolo iraniano.
“La repressione delle autorità non si è attenuata ma si è inasprita. La polizia morale della Repubblica islamica non è stata abolita ed è tornata in strada per punire le donne e le ragazze che non rispettano il codice di abbigliamento previsto. A mutare è la consapevolezza sociale. Adesso nelle piazze vediamo quello che stavamo aspettando: l’appoggio delle famiglie che supportano i loro figli e le loro figlie. Anche se non protestano apertamente, appoggiano i giovani nelle loro rivendicazioni: questa è una conquista molto importante”, racconta Zahra Toufigh, avvocata e attivista per i diritti umani, tra le fondatrici dell’associazione Donne libere iraniane.
Capillare e trasversale, la nuova forma delle proteste in Iran
Le rivolte di massa di un anno fa lasciano il posto a proteste più localizzate, ma capaci di espandersi e incidere nella resistenza di tutte le fasce della popolazione. “In questi mesi ci sono state anche proteste da parte degli operai e dei pensionati, a causa delle sanzioni e della politica economica inefficiente del Paese testimoniata dall’inflazione molto alta”, spiega Toufigh, che aggiunge: “I motivi economici e sociali uniscono le proteste che, pur non essendo di massa ma espandendosi in piccoli centri, sono comunque significative perché chiedono la liberazione del Paese da più punti di vista. Chi protesta non chiede solo migliori condizioni di vita dal punto di vista economico, ma la possibilità di vivere liberamente. Ad esempio tanti professori delle università sono stati espulsi per aver rivendicato questo messaggio di libertà attraverso la cultura. Nella facoltà di Belle Arti, gli studenti hanno scioperato per chiedere la loro liberazione”.
Le voci della resistenza cambiano modalità ma non abbassano il volume e, con l’obiettivo di scongiurare per il prossimo 16 settembre (data ufficiale della morte di Amini) il riaccendersi delle proteste di piazza, il regime teocratico gioca d’anticipo prendendo di mira gli attivisti e le famiglie delle vittime. Al centro dell’oppressione – e dell’opposizione – ancora una volta ci sono le donne.
Il potere delle donne nel mirino delle oppressioni
“Rivelo questo abuso per me stessa e per tutte le donne che sono state soggette a violenza fisica e abusi sessuali durante il loro arresto, in stazioni di polizia e prigioni, e hanno paura di parlarne”.
La voce della giornalista 23enne Nazila Maroufian testimonia la violenza delle autorità nei confronti delle donne e arriva dal carcere di Evin, dove è detenuta insieme ad altri oppositori, intellettuali e studenti. La registrazione è quella di una chiamata alla sua famiglia, poi condivisa dagli attivisti sui social media.
Arrestata il 30 agosto per la quarta volta da quando ha intervistato il padre di Mahsa Amini – e quindi per aver commesso i reati di “propaganda contro il sistema islamico iraniano” e “diffusione di notizie false” – Maroufian porta avanti la sua battaglia e quella “di tutte le donne che subiscono violenza nelle stazioni di polizia e nelle carceri”, annunciando di iniziare lo sciopero della fame come forma di protesta: “Questo sciopero è per me, ma è anche per tutte le donne in condizioni terribili in Iran. Quella della violenza è una realtà e chiunque non ne parli ha le sue ragioni per avere paura, ma durante gli interrogatori e nelle stazioni di polizia, le persone vengono aggredite verbalmente e sessualmente”.
Giornaliste in carcere
L’intimidazione è la strategia che le autorità iraniane continuano a mettere in atto, scagliandosi ancor più duramente con chi esercita il potere della parola. Nel settembre del 2022 le due giornaliste Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi sono state tra le prime a documentare la morte di Mahsa Amini e le conseguenti proteste. Oggi sono condannate a trascorrere un mese in carcere come parte di una pena detentiva di tre anni, parzialmente sospesa, per “cospirazione” e “collusione”.
A darne notizia è il loro avvocato, Amir Raisian, citato dal quotidiano riformista Ham Mihan, lo stesso dove lavora Mohammadi: “Il restante periodo in carcere è sospeso per cinque anni, durante i quali le due dovranno seguire una formazione in etica professionale, sarà loro vietato lasciare il Paese o avere rapporti con la stampa estera” ha aggiunto il legale. In Italia l’associazione GiULia – GIornaliste Unite LIbere Autonome si è subito schierata al fianco delle giornaliste iraniane chiedendo al governo della Repubblica islamica dell’Iran “l’immediato rilascio di Nazila Maroufian e delle colleghe e dei colleghi giornalisti, il rispetto e la tutela della loro incolumità e un processo e pene esemplari per gli agenti che trasgrediscono”.
Pattuglie per il velo, “una forma di apartheid di genere”
Non solo nelle carceri. Anche per le strade delle città la tensione resta altissima, soprattutto a Saqqez, città natale di Mahsa Amini: da questa estate la polizia morale ha ripreso a effettuare in tutto il paese le “pattuglie per il velo”, sia a piedi che a bordo di veicoli, per far sì che le donne rispettino il rigido codice di abbigliamento islamico. “Arrivano addirittura multe alle auto in cui vengono segnalate passeggere senza l’hijab”, specifica l’avvocata Zahra Toufigh: a differenza di quanto annunciato dal procuratore generale iraniano Mohammad Jafar Montazeri lo scorso dicembre – che proclamava l’abolizione della polizia morale – “la polizia continua ad essere l’organo designato a fermare le donne e assicurare la sicurezza delle persone: di fatto, in realtà, si tratta ufficialmente di un organo di repressione”.
Le proteste non si arrestano e le leggi si fanno più dure. Il portavoce della Disciplinary Force of the Islamic Republic of Iran (Faraja), Saeid Montazeralmahdi, ha specificato alla Cnn la dinamica degli accertamenti: “Le donne che indossano un abbigliamento non conforme saranno prima avvertite dagli agenti, mentre quelle che non si conformano e insistono a infrangere le regole potrebbero affrontare azioni legali”. Le leggi si muovono nella stessa direzione delle “regole” imposte dal regime e, a fine luglio, le autorità iraniane hanno proposto un nuovo disegno di legge che in 70 articoli prevede un drastico inasprimento delle condanne per le donne che si rifiutano d’indossare il velo. Se finora si rischiano da 10 giorni a 2 mesi di carcere, la nuova proposta prevede una forbice tra i 5 e i 10 anni di reclusione.
Inoltre, per ridimensionare il megafono mediatico di artiste e influencer, le donne condannate con la nuova legge potrebbero vedersi bandite da qualsiasi attività su Internet per un massimo di due anni. Il tentativo legislativo è quello di implementare “una forma di apartheid di genere”, così come lo ha definito un gruppo di esperti nominati dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite dopo aver esaminato il testo: “Il progetto di legge potrebbe essere descritto come una forma di apartheid di genere, poiché le autorità iraniane sembrano governare attraverso la discriminazione sistematica con l’intenzione di mettere donne e ragazze in una posizione di totale sottomissione”.
Le rappresaglie contro le famiglie delle vittime
In vista del primo anniversario delle proteste del movimento “Donna Vita Libertà”, le autorità iraniane stanno intensificando intimidazioni e minacce non solo contro le donne. Ma anche contro le famiglie delle vittime. L’obiettivo resta lo stesso: assicurare il silenzio e vedersi garantita l’obbedienza. “Non è un caso che le giovani manifestanti siano state ferite agli occhi durante le proteste. Il regime non vuole che vedano. Questa intimidazione sta continuando”, racconta l’attivista Toufigh.
A testimoniarlo è la ricerca pubblicata da Amnesty International che denuncia gli arresti arbitrari commessi nei confronti dei parenti delle vittime, insieme alle limitazioni imposte ai raduni dove queste sono state sepolte e alle distruzioni delle loro lapidi: come si legge nel rapporto, “le autorità hanno sottoposto i parenti in lutto a una serie di violazioni dei diritti umani, tra cui percosse, arresti e detenzioni arbitrarie, procedimenti giudiziari ingiusti e sorveglianza illegale. Hanno inoltre negato alle famiglie il diritto di tenere riunioni pacifiche sulle tombe dei loro cari, hanno danneggiato e profanato le tombe di coloro che sono stati uccisi illegalmente e hanno minacciato di riesumare le vittime e di seppellirle in luoghi non identificati”.
La ricerca riguarda 36 famiglie di altrettante vittime che negli ultimi mesi hanno subito violazioni dei diritti umani in dieci diverse province iraniane. Lo stesso zio di Mahsa Amini – Safa Aeli, 30 anni – è stato arrestato pochi giorni fa a Saqqez, in Iran meridionale: la notizia è trapelata grazie a Hengaw, l’Organizzazione indipendente per i diritti umani in Kurdistan, e agli attivisti di 1500 Tasvir. “Poche ore fa, un gran numero di forze armate della Repubblica islamica hanno attaccato la residenza di Sara Aeli, lo zio di Mahsa Amini, e lo hanno arrestato”, hanno postato gli attivisti su X: secondo le loro testimonianze, le autorità hanno circondato la residenza di Aeli con ben cinque veicoli, prima di prelevarlo e trasferirlo in una località sconosciuta.
“Come emerge dalle evidenze di Amnesty, c’è bisogno che la comunità internazionale non resti ferma – commenta Toufigh – non dobbiamo aspettare che in Iran succeda qualcosa per parlarne: la violazione dei diritti umani è continua. Chiediamo maggiore attenzione e vogliamo che siano fermate tutte le relazioni politiche con le autorità iraniane. Continuare a intesserle, infatti, significherebbe dare legittimità a un governo che il suo stesso popolo non legittima”.
Per esprimere solidarietà al popolo iraniano, il 16 settembre si terranno manifestazioni di piazza a Roma, Milano e Bologna. “Con il messaggio Donna Vita Libertà chiediamo di poter vivere una vita libera e pacifica”, specifica l’avvocata Toufigh. “Questa è la richiesta del popolo iraniano e ci riguarda tutti e tutte, perché è un messaggio di libertà per il mondo intero”.
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