Sudan, dopo 8 settimane di conflitto oltre un milione di sfollati

Oltre 1 milione di sfollati, violenze specifiche di genere in crescita, parti sicuri inaccessibili: è la quotidianità del Sudan all’ottava settimana di conflitto. Gli scontri vedono, da una parte, l’esercito, ovvero il Sudanese Armed Forces (Saf) guidato da Abdel Fattah al-Burhan e, dall’altra, i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), ai comandi di Mohamed Hamdan Dagalo (noto come Hemedti). In mezzo la popolazione civile – e soprattutto le fasce più vulnerabili – a pagare il prezzo più alto.

I combattimenti stanno esacerbando le sofferenze di milioni di persone già alle prese con disordini di lunga data e sfide umanitarie. A poco, poi, è servita la tregua di 7 giorni, mediata da Arabia Saudita e Stati Uniti, e stabilita principalmente per consentire l’accesso degli aiuti umanitari. Il cessate il fuoco è stato terminato la sera di sabato 3 giugno ma nei fatti non è mai stato del tutto rispettato.

Che succede in Sudan

I combattimenti sono iniziati il 15 aprile a Khartoum ma si sono rapidamente diffusi in altre parti del Paese, ad esempio nella provincia occidentale del Darfur dove, tra l’altro, le Rsf erano già state coinvolte nella guerra del 2003 e Hemdeti si era macchiato di gravi crimini. Al 16 maggio scorso, il ministero federale della Salute contava almeno 705 persone uccise, tra cui civili, e più di 5mila feriti. Carlotta Wolf, coordinatrice delle emergenze per la raccolta fondi di Unhcr, fotografa per Alley Oop la situazione: “contiamo milioni di persone costrette a scappare. Tra loro ci sono oltre 1,04 milioni di sfollati interni e 330mila rifugiati che hanno attraversato il confine con i Paesi vicini in cerca di sicurezza“.

La maggior parte dei sudanesi in fuga è arrivata in Ciad (90mila), Sud Sudan (75mila) e in Egitto (più di 151mila). Sono per lo più donne, bambini, anziani, persone con disabilità e problematiche mediche precedenti, spiega Wolf. Molti erano già, a loro volta, rifugiati in Sudan. Il Paese ospita infatti quasi 5 milioni di persone che erano state costrette a scappare da precedenti guerre. Ora alle crisi politiche si aggiungono gli effetti della stagione delle piogge che, dopo mesi siccitosi, è iniziata e potrebbe complicare la distribuzione degli aiuti umanitari.

Chiara Scanagatta, componente di Ingo Medici con l’Africa Cuamm, racconta come siano tangibili e preoccupanti le ripercussioni del conflitto sudanese sui Paesi circostanti: “In Sud Sudan, dall’inizio degli scontri, si sono registrati decine di migliaia di nuovi ingressi, il 93% dei quali sono returnees cittadini sud sudanesi che rientrano nel proprio Paese. Lo fanno attraversando le regioni di confine: Unity State e Upper Nile, aree oggi al collasso che da tempo ospitano rifugiati interni in fuga da conflitti, condizioni climatiche avverse e insicurezza alimentare. Da queste regioni partirà presto un esodo interno e in migliaia si sposteranno verso il centro e il sud del Paese gravando su una rete di servizi già estremamente fragile“.

Partorire in tempo di guerra

A causa del conflitto che infuria, molti ospedali hanno chiuso e quelli che restano aperti sono a corto di energia. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, solo un ospedale su 6 a Khartoum sta lavorando a pieno regime. Anche le cose più semplici, come l’acqua o la benzina per i generatori di energia, rischiano di non essere disponibili.

Condizioni che rendono un’esperienza come il parto ancora più stressante, sia per le donne sia per gli operatori sanitari. “Ci affidiamo alle luci dei telefoni cellulari per eseguire un cesareo“, dice l’ostetrico Howaida Ahmed al-Hassan in un video condiviso con la Bbc dove un gruppo di sanitari – tutte donne – circonda il dottor Hassan e illumina con i telefonini l’area in cui viene praticata un’incisione.

Già ad aprile l’Unfpa, il fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, avvertiva dei pericoli che la situazione comportava per le donne incinte. All’inizio dei combattimenti si diceva che circa 24mila donne avrebbero partorito nelle settimane successive e stimava che nella sola capitale ci fossero 219mila donne incinte ritenute a rischio. I violenti scontri rendono molto difficile la ricerca di cure prenatali essenziali, servizi di parto sicuro o assistenza postnatale. Inoltre, una volta nati, i bambini non riescono a ottenere un certificato di nascita né ricevere le vaccinazioni essenziali.

Abusi e stupri

Allerta anche per 3,1 milioni di donne e ragazze che affrontano un aumento del rischio di violenza di genere potenzialmente letale. Con migliaia di persone che fuggono dalle loro case, infatti crescono i pericoli di abuso e sfruttamento. Lo conferma anche Wolf: “Con grandi flussi di persone in movimento, cresce la probabilità di violenza specifica di genere e in caso di donne sopravvissute a casi di violenza, quando arrivano da noi, si attiva uno screening più specifico con cure e assistenza psicologica. In questa condizione di caos generalizzato e violenza diffusa, di nuovo, sono le persone più vulnerabili a soffrire di più”.

Segnalazioni di stupri da parte delle forze armate iniziano ad emergere: a Khartoum, la capitale, e a el-Geneina, nel Darfur occidentale, ci sarebbe il più alto numero di casi di violenza sessuale. Intanto attivisti e sanitari si stanno attivando sui social media per sensibilizzare sul tema e fornire una rete di supporto per sopravvissute e donne a rischio. Come comandante della milizia Janjaweed, tra l’altro, Hemedti era già stato accusato di aver usato lo stupro come arma di guerra nel conflitto in Darfur.

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Risposta umanitaria

Per i civili coinvolti nel fuoco incrociato, le conseguenze sono catastrofiche. Nella capitale si sono verificati saccheggi; diminuzione delle scorte alimentari con la distruzione dei mercati; tagli all’acqua e all’elettricità oltre al collasso dei servizi sanitari, finiti nel mirino di alcuni attacchi. Dal 15 aprile, l’Oms ha contato 46 episodi che hanno preso di mira strutture e personale.

Nei giorni scorsi sono cadute le prime piogge dell’anno che potrebbero non solo complicare gli sforzi dei soccorsi ma anche portare a un aumento del rischio di malattie. Cosa fa Unhcr in questa situazione? “Come agenzia delle Nazioni Unite, quando le persone arrivano nei nostri campi, stremate da giorni di cammino e traumatizzate, ci occupiamo per prima cosa dei bisogni più urgenti: acqua, cibo, riparo, cure mediche e sostegno psicologico” spiega Wolf. “Aiutiamo nella riunificazione familiare e, aspetto molto importante, registriamo le persone che arrivano. Serve, logisticamente, per assicurare una corretta distribuzione degli aiuti, ma soprattutto, dal punto di vista psicologico, a ridare un’identità a persone che si sono viste costrette a scappare in poco tempo per eventi assolutamente imprevedibili lasciando tutto ciò che avevano, documenti inclusi“.

Scanagatta di Medici con l’Africa, sottolinea anche che, in questo scenario, è necessario intervenire con “una risposta duplice: mentre si raggiungono le aree di frontiera per offrire servizi di base, è essenziale strutturare una risposta integrata e capillare nel resto del Paese. È questo che noi di Cuamm stiamo facendo, principalmente nella regione dei Laghi, lavorando in continua sinergia con le autorità sud sudanesi e i partner attivi sul territorio“.

Finanziamenti

Oltre 300mila persone sono state raggiunte dall’assistenza in Sudan, riporta l’Unocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, ma la situazione è disperata, ammette Wolf perché, anche prima di questi scontri, l’Unhcr operava in condizioni difficili.

Con l’escalation di violenza, il piano di risposta umanitaria (Hrp) del 2023 per il Sudan, lanciato nel dicembre 2022, è stato rivisto e ora richiede 2,6 miliardi di dollari per fornire assistenza salvavita a 18,1 milioni di persone nel Paese (con un aumento di 800 milioni di dollari rispetto a pochi mesi fa). La risposta esterna però non è incoraggiante: le risorse finanziarie sono coperte per ora solo al 14%, pari a 356.8 milioni di dollari ricevuti.

Abbiamo lanciato un appello specifico ma non stiamo ricevendo abbastanza sostegno. Ci stiamo accorgendo che la crisi sta già uscendo dai radar dell’attualità”. E minore attenzione significa anche minore sostegno economico ai programmi salvavita. “Le necessità sul campo sono grandi. Interessano una regione dove già prima c’erano ampi bisogni e, soprattutto, persone che nulla c’entrano con il conflitto come bambini e persone fragili. Siamo preoccupati di non potere fare fronte a tutte le necessità” conclude Wolf.

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