Violenza sulle donne, ecco perché il Codice rosso rafforzato è rischioso

Il Senato ha appena approvato in prima lettura un disegno di legge secondo il quale il Procuratore può revocare il fascicolo assegnato al Pm, qualora quest’ultimo non ascolti entro tre giorni una donna che abbia denunciato una violenza sessuale o domestica. L’intervento (S 377) è stato ribattezzato dai proponenti (maggioranza) “Codice rosso rafforzato”.

Io resto perplessa e critica. A legislazione vigente e senza questa modifica, infatti, il Procuratore, a capo dell’ufficio, ha già il potere di revocare e assegnare a sé o ad altro sostituto qualsiasi fascicolo di indagine, di cui rimane titolare, a maggior ragione se non viene rispettato un termine temporale. E allora perché approvare addirittura una legge, quando forse sarebbe bastata una circolare e quando peraltro non ci sono dati che confermino l’inottemperanza, da parte delle Procure, del termine per l’ascolto delle donne che hanno denunciato? Siamo sicuri che chiamare tutto il Parlamento a votare una legge di questo tipo non distolga l’attenzione dalle vere e resistenti criticità del sistema?

Una legge inutile e rischiosa

Come Pd ci siamo astenuti su questo Ddl come facemmo proprio sul Codice rosso – votare contro sul contrasto alla violenza di genere non è mai positivo – perché riteniamo quest’ultima norma non solo sostanzialmente inutile, ma per certi versi anche rischiosa. Intanto perché punta l’indice in maniera superficiale e inutilmente vessatoria contro Pm e Procure. E poi perché rischia di continuare a chiedere sempre e solo alle donne coraggio e sovraesposizione. Non tutte le vittime di abusi e violenze si sentono pronte a essere ascoltate entro tre giorni dalla denuncia: tante volte chi trova il coraggio di andare in commissariato ha poi bisogno di tempo, non si sente pronta a rivivere una seconda volta in poche ore quel vissuto doloroso. Incalzare queste donne con termini temporali troppo rigidi e automatici può minare addirittura l’esito del procedimento ed essere penalizzante per chi è costretto a ripetere  quel racconto in una condizione emotiva di forte paura e sofferenza. Noi abbiamo scelto di dare voce a quelle donne, agli operatori, ai Pm che abbiamo audito in Commissione e che hanno espresso i nostri stessi dubbi.

È anche per questo che solo il 15% delle vittime è disposto a denunciare, un numero ancora davvero scarso e che il 67%  non è disposto a parlarne nemmeno con un’amica (dati della Commissione di inchiesta sul femminicidio). Dunque le donne oggi non denunciano non perché il Pm può impiegare più tempo dei tre giorni previsti, ma perché ancora troppo spesso non vengono credute, supportate, accompagnate, protette in maniera adeguata nel percorso che le aspetta. Un iter che, secondo i nostri dati, non è lungo nelle fasi delle indagini, ma rischia di esserlo nel corso del processo.

Il tema allora non è il tempo della raccolta delle informazioni, oggi per fortuna quasi sempre veloce e tempestiva, ma la qualità, la puntualità, il rigore dell’ascolto, presupposto indispensabile  per l’adozione delle misure necessarie a proteggere subito le donne che denunciano. E allora invece di puntare l’indice contro le Procure oppure chiedere alle donne ancora più coraggio e forza, vogliamo una volta tanto mettere al centro della nostra attenzione gli uomini violenti e le misure necessarie per fermare i loro comportamenti? È per questo che avevamo chiesto, ricevendo un rifiuto, che questo Ddl venisse discusso insieme con quello del Pd (S 92) dal titolo “Modifiche al codice di procedura penale, al codice penale e ulteriori disposizioni in materia di contrasto alla violenza domestica e di genere” che prova, con una visione d’insieme, a colmare alcune lacune ancora presenti nel sistema e mettere in campo una serie di misure, anche raccogliendo i risultati della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio.

Più formazione e ricorso al braccialetto elettronico

Quel che serve è infatti riuscire a proteggere di più le donne che denunciano, sia attraverso un maggiore supporto  ai Centri antiviolenza sia attraverso interventi mirati a migliorare il sistema giudiziario, a partire da misure volte a favorire un maggiore e più esteso uso delle misure cautelari e di prevenzione. Dobbiamo arrivare a un’attenta e tempestiva valutazione del rischio che la donna corre e a una puntuale valutazione della pericolosità sociale dell’uomo violento e questo può essere fatto solo attraverso un massiccio investimento sulla formazione e sulla specializzazione degli operatori, dalle forze dell’ordine ai magistrati.

Alle misure cautelari, come l’allontanamento dalla casa famigliare e il divieto di avvicinamento, si deve poi accompagnare una maggiore  applicazione del braccialetto elettronico, che richiede personale dedicato e quindi risorse. È necessario, infine, ricorrere di più a misure come l’ammonimento del Questore e gli uomini violenti e maltrattanti devono essere sottoposti a percorsi di recupero veri e con risultati da verificare e certificare, prima di essere ammessi a eventuali benefici come la sospensione condizionale della pena.

Resta chiaro in ogni caso che non si può continuare a investire solo su norme penali. Noi insistiamo: bisogna partire dal cambiamento dei modelli sociali e culturali. Bisogna riconoscere la vera natura della violenza maschile contro le donne per combatterla e sconfiggerla. La notizia positiva è che la commissione Giustizia del Senato incardinerà il nostro Ddl a breve ed è anche per questa disponibilità che ci siamo astenuti.

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  • Paola Gabrieli |

    Sono d’accordo con la presente Valeria Valente, si continua a non affrontare il vero problema ossia il maltattante che viene troppo spesso lasciato libero dopo i reati di maltrattamenti. Il braccialetto? Dicono sia molto impegnativo x chi deve gestire.

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