Dell’ultimo film di Nanni Moretti si è detto e si è scritto moltissimo, in queste prime settimane di programmazione. “Il Sol dell’avvenire” è un’opera a grandi tratti nostalgica, ma è anche una retrospettiva critica e feroce.
Giovanni è un regista romano di mezza età, impegnato nelle riprese dell’ultimo dei suoi film, produzioni che arrivano puntuali, come uno scatto d’orologio, una ogni cinque anni. È sposato con Paola, una Margherita Buy in grande spolvero. L’alter ego del regista è il suo protagonista: Ennio (un bravissimo Silvio Orlando), redattore de L’Unità, anima della sezione romana del Pci intitolata a Gramsci.
Sono gli anni 50, anzi è il 1956, quello della nevicata. Il film si apre con la luce elettrica che accende la periferia. Le scene scorrono dentro e fuori dal set, trascinando sotto agli occhi dello spettatore un’Italia che non c’è più e che forse, in silenzio, ci manca moltissimo.
Sono le donne a centrare l’obiettivo, a percorrere e a ripercorrere, a doppio senso di marcia, la pellicola, arrivando persino a ribaltarne il finale. Barbara Bobulova è Vera, militante e compagna di sezione di Ennio, la sola in grado di sollecitare riflessioni, politiche e private, infine così urgenti da costringere il Partito a fare i conti con l’etica. Sullo sfondo c’è infatti la Russia, i carri armati in Ungheria, la repressione e i morti di Budapest, Togliatti.
Paola, invece, da quarant’anni, divide la vita e il lavoro con Giovanni. Parlano di tutto, fuorché della coppia. La politica li unisce, il cinema anche. Affini per natura ma d’accordo per forza, si potrebbe dire mentre li si osserva muoversi sullo schermo. Il rapporto tra i due è rivelatore. Da una parte lui, tutto luci e ombre. Un uomo capace di acute riflessioni, occhi puntati sui massimi sistemi, coraggioso e visionario fino a battersi per impedire al cinema di svendersi, persino capace di resistere a Netflix o alla tentazione di arrendersi alla violenza intesa come intrattenimento. Ma Giovanni è anche, ingenuamente, incapace di leggere l’insofferenza e la sofferenza (profondissima e autentica) della compagna, che da molto tempo non lo contraddice nemmeno più, che non cerca il confronto per non creare lo scontro, che lui teme come si teme una crepa quando avanza e si fa frattura.
Se come scrive Luce Irigaray la democrazia comincia a due, tra questi coniugi, malgrado un grandissimo, palpabile affetto, di democrazia non v’è più traccia. Poche parole, e poi, piano piano, nemmeno più quelle. Il silenzio e la distanza che tutto coprono. Paola sta come incastrata tra le maglie del suo matrimonio: un copione, quello di Giovanni, che a lei chiede di non uscire dal ruolo, mai, di non fare domande e non abbozzare risposte. Nessuna resistenza, perché non vi siano attriti, purché non vi siano attriti.
Ma di solito al punto di rottura si arriva. Magari gradualmente, ma così accade. E stavolta lei (che forse siamo tutte noi) finisce per scegliere sé stessa. La storia, si sa, insegna, ma non si fa imparare e qui ci dice una verità dolorosissima: non si può omettere, tacere, assecondare per tutta la vita, senza al contempo perdere con l’altro anche il proprio sé più vero.
La lezione per tutte le coppie al di là dello schermo è che bisogna parlarsi, in amore, anche a rischio di stancarsi. E dirselo quando insieme non si sta più bene, perché a furia di soffocarsi in un attimo è già troppo tardi e resta la conquista vana di una vita placida, un mare senza onde, nel fondo del quale scopriamo d’aver affogato i sentimenti. La calma a tutti i costi, a quale prezzo? Sembrerebbe questa la domanda che arriva dal vissuto dei protagonisti.
Un velo di tristezza scende sullo spettatore e sulla spettatrice, testimoni di come possano scivolare via le storie d’amore anche più solide, l’affetto e persino l’affinità, giù come macerie. Fino a risultare chiarissimo, d’un tratto, che si può essere condannati alla lontananza, quando la scelta obbligata resta una sola: lasciare per non scomparire.
A scardinare il sistema sono, perciò, ancora le donne. Che regalano al film un finale di speranza, in marcia. È Emma (Valentina Romani) a fare da grimaldello. La figlia di Paola e Giovanni sceglie di sposare un uomo di molti anni più vecchio e scatena nel padre, come nella madre, reazioni fortissime che però evolveranno, come evolve la vita stessa.
Ma è la stessa Paola a rompere gli schemi, quando infine decide di dirle, quelle parole scomode. Rompere il cordone ombelicale con l’uomo di una vita è decisione difficile, lo si fa con gravità e pesantezza. Lei ci riesce per il tramite della psicoanalisi, che diventa detonatore, strumento che amplifica una reazione già esplosa.
“Stai facendo un film d’amore, e nemmeno ti sei reso conto. Un film pessimista sull’amore“, dirà Vera a Giovanni, a un tratto, illuminando il senso altro di questa ultima opera del regista romano.
“Il Sol dell’avvenire” è sì, certamente, un film politico, sul Pci, sul Paese, sugli albori della Repubblica, ma è principalmente un film sui sentimenti, pubblici e privatissimi. In fondo, potrebbe esserci la nostra vita a riempire quelle scene. Sono i nostri anni passati che guardano a quelli futuri; mesi e giorni che Nanni Moretti infila, inanellandoli con cura, uno dopo l’altro.
La musica a un certo punto invade il cinema: i più bei pezzi di Fabrizio André, Franco Battiato e Luigi Tenco riempiono l’aria, poi torna la luce in sala e ci riporta al presente. È così che, lontano lontano nel tempo, scorgiamo la possibilità i nostri migliori anni ci siano d’aiuto, a sperimentare percorsi di felicità per i giorni che verranno.
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